Arrivano periodi in cui si scrive meno facilmente; forse perché si preferisce vivere. Non è stato infrequente che rileggendo qualcosa di mio io abbia pensato “ma che cazzo vuoi...” e abbia cestinato senza pietà. Frase, questa, che mi capita di considerare spesso quando qualcuno mi parla, ma è evidentemente un altro discorso. Oggi ho fatto la mia uscita in società, mezz'ora di passeggiata vestito come un tennista senior eterosessuale con il vizio del fumo. Ho contato uno sguardo profondo di una sconosciuta, una coppietta che faceva pettegolezzi come solo chi sta insieme si mette in testa di fare, un docente universitario dall'aria espansiva che faceva i complimenti al violinista in funicolare.
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Poco altro. Sono giorni che giro intorno alla mia simpatia per il bassista Ian Hill dei Judas Priest. Sono giorni figli di anni, perché ho sempre tenuto in considerazione Ian Hill, uno che in decenni di onorata carriera non ha fatto un assolo di basso che sia uno, è sempre stato nelle retrovie, nei video dei Judas quasi non lo inquadravano: i bassisti hard rock di oggi non lo considerano un'influenza e spesso ne criticano la remissività. Sono degli ingrati. Fior di professionista, persona garbata, Ian Hill ha sempre avuto la mia stima per il totale e sincero anti-divismo che ha professato con continuità. Sono cresciuto con i Judas Priest, che senza il suo basso non invadente ma di certo fondantem nei diversi anthem granitici che ci hanno consegnato avrebbero perso propulsione, base, dinamismo.
Apprezzo di Ian anche lo spirito e la tolleranza; al posto suo avrei cacciato la testa dal sacco e avrei rotto i coglioni a K.K. Downing, Glen Tipton e al grande Rob Halford, chiedendo un po' di visibilità. E invece. Quindi, surplus di stima. Ian Hill sapeva stare al suo posto, ma quello era il suo posto. Non se ne può più di primedonne, ovunque. Ian, nelle numerose interviste concesse alla stampa specializzata (perché ancora oggi, con il suo aplomb, sembra essere quello delegato maggiormente ai rapporti con la stampa), non giocava a fare la vittima, anzi spiegava il concept della band con dovizia di particolari e con sincero entusiasmo. Sembrava sempre voler dire “so che non apprezzate che non mi si veda e so anche di aver scritto poche canzoni, ma sono fatti miei, senza di me non sarebbero i Judas Priest”. Tutta la mia devozione a Ian Hill, che naturalmente è assurto subito, nelle nebbie della mia adolescenza, a mio Judas prediletto. E lo è ancora.
Sono stato metallaro per anni e anni. Questo non si dimentica. È stato un imprinting di autoghettizzazione, almeno in quegli anni. Mentre i miei compagni di scuola cresi e figli di professionisti si dilettavano nella dicotomia tra Duran Duran e Spandau, io macinavo metallo pesante e rabbia sociale. Mi è servito molto. E non rinnego. Non rinnego proprio niente di quel periodo. Ad una sgangherata e mal riuscita festa per i miei diciassette anni, consolai i pochi e annoiati invitati con dischi di Armored Saint, Attacker, Celtic Frost, Abattoir, Venom, Accept e Metal Church. Mi chiesero di smetterla, nonostante fossi il festeggiato, e le giovani fiche rivolsero definitivamente le loro attenzioni altrove. Non mi importava, sentivo di avere molta rabbia dentro e dovevo esibire la mia diversità per non farmi sopraffare, per cui il metal andava più che bene per non essere inquadrato da subito. Negli anni successivi ho deviato in modo naturale verso altro, ma sono spesso tornato al metal, dopo abbuffate di fusion bassistica o post punk, di class pop e di blues, ed è sempre stato soddisfacente tornare in quella vecchia cantina piena di ragnatele. Riascoltando oggi quei dischi, mi viene il magone. Ricordo quante ballate ho consumato per ragazze che nemmeno mi conoscevano, e quante cavalcate sonore ho sostenuto per infondermi quel coraggio che era un misto tra scemenza e trascendenza pura. Poi ho iniziato a soffrire e a far soffrire, a sporcarmi di vita e di scelte, di addii e ritorni, ho cercato di essere uomo senza farmela sotto, ho cercato quantomeno di essere una persona decente, non sempre riuscendoci. Maledettamente imperfetto, schifosamente spartano e perfezionista, ho giocato nel ruolo, di Ian Hill, ma senza la sua infinita pazienza e la sua bonarietà. Chissà come mi era venuto il gusto dei conflitti, dei confronti, dei botta e risposta, delle vendette, fatto sta che la compostezza di Ian Hill io me la sono sempre sognata. E questo è un rimpianto, sì, almeno questo.
Oggi sono invecchiato, quel che serve, quel che basta. Da primadonna in malasorte esibita sono passato a vecchia bagascia che si rifugia nei fiori quando rimane sola e dimentica tutto il fiume di pelle, baci e abbracci trascorsi, tutte le chimere mai levigate per bene, tutti gli equivoci generati dal cercare di amare e vivere, come un contrappasso in tempo reale. Non sento grossi rammarichi addosso, anzi le questioni più spinose mi hanno visto risoluto e piuttosto rapido. Sento il peso di frasi che non ho pronunciato, di esitazioni fatali, di entusiasmi mal gestiti, ma niente che possa davvero somigliare a rimpianti, rimorsi o desideri di espiazione. Ho fatto quel che potevo e ho protestato anche troppo, con chiunque, senza deferenza, senza timori. Ho voltato pagina quando necessario e quando l’aria non era più tersa. Per fortuna, i veri eroismi sono altrove, qui è solo sopravvivenza e serbatoio di rabbia che serve ad accendere gli occhi al mattino. Il vero eroismo è banalmente diventato credere negli altri e nelle opportunità che la vita offre, dedicarsi a qualcuno senza chiedere danni e risarcimenti al primo ostacolo, l'eroismo è confondersi agli altri e non lamentarsi per lo scarso rilievo delle nostre azioni.
Ma torniamo a Ian Hill, che è il punto focale di questo pezzo.
Ian è, grazie a Dio, ancora vivo e suona ancora. Jaco Pastorius, Phil Lynott e Sid Vicious sono morti. Vorrà pur dire qualcosa. Ian Hill è stato al suo posto; doveva avere le spalle larghe e una larga visuale di comprensione delle cose e degli equilibri. Non si possono amare solo i rompicollo e gli uomini straordinari. Mi piacerebbe iniziare a comportarmi un po' come Ian Hill, che forse si fumava una sigaretta per cazzi suoi mentre gli axemen e il frontman della band riscuotevano consensi e acclamazioni. Non ho mai visto qualcuno impazzire per le controllate movenze di Ian, invece Rob Halford ha -giustamente- un seguito di fedelissimi che lo hanno seguito anche in imprese musicali non perfettamente a fuoco. Ci sarà sempre qualcuno, almeno è auspicabile, che sarà attento a te anche se non strepiti. Il Luca diciassettenne che ascoltava tutti i dischi dei Judas si attaccava alle casse dello stereo antidiluviano per distinguere il basso di Hill, si emozionava per le tante e belle note profuse dall'uomo-ombra nel pezzo “Here come the tears”, e oggi scrive di lui a distanza di venticinque anni da quei battesimi. Con un senso di gratitudine. Senza esagerare. Mi sembra, a tutti gli effetti, la prova che non tutti preferiscono i primi piani e la luce, ma riescono a volte a scorgere oggetti ed anime nascoste nei margini, negli sfondi, in quell'oblio che è spesso una meravigliosa mimesi. E dunque gloria a Ian Hill, nonostante la passione che ho per bassisti onnipresenti e dal suono certamente più ingombrante e riconoscibile come Steve Harris, Rudy Sarzo, Cliff Burton, Tony Franklin, Randy Coven, Billy Sheehan, Barry Sparks, Marcel Jacob, Barend Courbois, Steve DiGiorgio, Jeroen Paul Thesseling, tanto per rimanere nel genere. Come metafora di una crescita nel vedere le cose e le persone, mi piace utilizzare lui, uno dei grandi “invisibili di sostanza”. Forse il mio eroe adolescenziale meglio conservato, più sano e lungimirante, dolcemente attivo in una macchina perfetta di metallo che si chiama Judas Priest ed io ho avuto la fortuna di incontrare ed amare.
Luca De Pasquale, 12 gennaio 2014
Sono stato metallaro per anni e anni. Questo non si dimentica. È stato un imprinting di autoghettizzazione, almeno in quegli anni. Mentre i miei compagni di scuola cresi e figli di professionisti si dilettavano nella dicotomia tra Duran Duran e Spandau, io macinavo metallo pesante e rabbia sociale. Mi è servito molto. E non rinnego. Non rinnego proprio niente di quel periodo. Ad una sgangherata e mal riuscita festa per i miei diciassette anni, consolai i pochi e annoiati invitati con dischi di Armored Saint, Attacker, Celtic Frost, Abattoir, Venom, Accept e Metal Church. Mi chiesero di smetterla, nonostante fossi il festeggiato, e le giovani fiche rivolsero definitivamente le loro attenzioni altrove. Non mi importava, sentivo di avere molta rabbia dentro e dovevo esibire la mia diversità per non farmi sopraffare, per cui il metal andava più che bene per non essere inquadrato da subito. Negli anni successivi ho deviato in modo naturale verso altro, ma sono spesso tornato al metal, dopo abbuffate di fusion bassistica o post punk, di class pop e di blues, ed è sempre stato soddisfacente tornare in quella vecchia cantina piena di ragnatele. Riascoltando oggi quei dischi, mi viene il magone. Ricordo quante ballate ho consumato per ragazze che nemmeno mi conoscevano, e quante cavalcate sonore ho sostenuto per infondermi quel coraggio che era un misto tra scemenza e trascendenza pura. Poi ho iniziato a soffrire e a far soffrire, a sporcarmi di vita e di scelte, di addii e ritorni, ho cercato di essere uomo senza farmela sotto, ho cercato quantomeno di essere una persona decente, non sempre riuscendoci. Maledettamente imperfetto, schifosamente spartano e perfezionista, ho giocato nel ruolo, di Ian Hill, ma senza la sua infinita pazienza e la sua bonarietà. Chissà come mi era venuto il gusto dei conflitti, dei confronti, dei botta e risposta, delle vendette, fatto sta che la compostezza di Ian Hill io me la sono sempre sognata. E questo è un rimpianto, sì, almeno questo.
Oggi sono invecchiato, quel che serve, quel che basta. Da primadonna in malasorte esibita sono passato a vecchia bagascia che si rifugia nei fiori quando rimane sola e dimentica tutto il fiume di pelle, baci e abbracci trascorsi, tutte le chimere mai levigate per bene, tutti gli equivoci generati dal cercare di amare e vivere, come un contrappasso in tempo reale. Non sento grossi rammarichi addosso, anzi le questioni più spinose mi hanno visto risoluto e piuttosto rapido. Sento il peso di frasi che non ho pronunciato, di esitazioni fatali, di entusiasmi mal gestiti, ma niente che possa davvero somigliare a rimpianti, rimorsi o desideri di espiazione. Ho fatto quel che potevo e ho protestato anche troppo, con chiunque, senza deferenza, senza timori. Ho voltato pagina quando necessario e quando l’aria non era più tersa. Per fortuna, i veri eroismi sono altrove, qui è solo sopravvivenza e serbatoio di rabbia che serve ad accendere gli occhi al mattino. Il vero eroismo è banalmente diventato credere negli altri e nelle opportunità che la vita offre, dedicarsi a qualcuno senza chiedere danni e risarcimenti al primo ostacolo, l'eroismo è confondersi agli altri e non lamentarsi per lo scarso rilievo delle nostre azioni.
Ma torniamo a Ian Hill, che è il punto focale di questo pezzo.
Ian è, grazie a Dio, ancora vivo e suona ancora. Jaco Pastorius, Phil Lynott e Sid Vicious sono morti. Vorrà pur dire qualcosa. Ian Hill è stato al suo posto; doveva avere le spalle larghe e una larga visuale di comprensione delle cose e degli equilibri. Non si possono amare solo i rompicollo e gli uomini straordinari. Mi piacerebbe iniziare a comportarmi un po' come Ian Hill, che forse si fumava una sigaretta per cazzi suoi mentre gli axemen e il frontman della band riscuotevano consensi e acclamazioni. Non ho mai visto qualcuno impazzire per le controllate movenze di Ian, invece Rob Halford ha -giustamente- un seguito di fedelissimi che lo hanno seguito anche in imprese musicali non perfettamente a fuoco. Ci sarà sempre qualcuno, almeno è auspicabile, che sarà attento a te anche se non strepiti. Il Luca diciassettenne che ascoltava tutti i dischi dei Judas si attaccava alle casse dello stereo antidiluviano per distinguere il basso di Hill, si emozionava per le tante e belle note profuse dall'uomo-ombra nel pezzo “Here come the tears”, e oggi scrive di lui a distanza di venticinque anni da quei battesimi. Con un senso di gratitudine. Senza esagerare. Mi sembra, a tutti gli effetti, la prova che non tutti preferiscono i primi piani e la luce, ma riescono a volte a scorgere oggetti ed anime nascoste nei margini, negli sfondi, in quell'oblio che è spesso una meravigliosa mimesi. E dunque gloria a Ian Hill, nonostante la passione che ho per bassisti onnipresenti e dal suono certamente più ingombrante e riconoscibile come Steve Harris, Rudy Sarzo, Cliff Burton, Tony Franklin, Randy Coven, Billy Sheehan, Barry Sparks, Marcel Jacob, Barend Courbois, Steve DiGiorgio, Jeroen Paul Thesseling, tanto per rimanere nel genere. Come metafora di una crescita nel vedere le cose e le persone, mi piace utilizzare lui, uno dei grandi “invisibili di sostanza”. Forse il mio eroe adolescenziale meglio conservato, più sano e lungimirante, dolcemente attivo in una macchina perfetta di metallo che si chiama Judas Priest ed io ho avuto la fortuna di incontrare ed amare.
Luca De Pasquale, 12 gennaio 2014
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