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Il nome del piatto tipico di New Orleans cosa può suggerire, ad una persona innamorata della musica? Una mistura, speziata e originale, di diversi elementi che coesione e ritmo porteranno facilmente ad armonizzarsi al meglio. Questa formula, che appare così semplice ma che in realtà è di difficilissima attuazione, è alla base della proposta dei Jambalaya 37, band torinese dedita ad un’elegante fusione sonora di jazz, funk, elettronica, acid jazz e con un piglio cinematico non trascurabile. La presenza –centrale- nel combo di uno strumento melodico e seducente come il trombone amplia di molto le possibilità sonore dei Jambalaya 37, a loro agio in più contesti apparentemente non sovrapponibili: inserti elettronici e passi di straight jazz sembravano alla portata di pochi artisti, tra i quali Bugge Wesseltoft ed Erik Truffaz, e buona parte della nuova onda scandinava. I Jambalaya 37 hanno cambiato pelle recentemente, come ci spiegherà Gabriele Biei nell’intervista che mi ha gentilmente concesso, ed hanno rafforzato il loro taglio già internazionale e sofisticato. Un gruppo che mi sento personalmente di consigliare a chiunque chieda alla musica un effetto sorpresa spontaneo e, appunto, una più che promettente eleganza.
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What could suggest the name of the typical dish of New Orleans to a person fell in love with music?
An original and spiced mixture of various elements that coherence and rhythm easily best manage to harmonise. This solution - which seems to be such a simple purpose but that is really difficult to be carried out - forms the basis for the project of Jambalaya37, a band in Turin dedicated to an elegant sound fusion of jazz, funk, electronic music, acid jazz and with a significant cinematic edge. The vital presence in the combo of a melodic and attractive instrument as the trombone opens up considerably Jambalaya 37’s sound variations, a group that is comfortable with apparently not inter-related musical contexts: electronic sections and all the straight jazz parts seemed to be within reach of few artists, which include Bugge Wesseltoft and Erik Truffaz as well as a great part of the new wave of scandinavian sound. Lately Jambalaya 37 have shed their skin, as Gabriele Biei explains us in this interview, considering that they have enhanced their international and sophisticated profile. This is a band that I personally should very much like to advise to anyone asks the music a natural element of surprise and indeed a more promising elegance. |
e-mail: [email protected] / [email protected]
Facebook: https://www.facebook.com/jambalayaweb
LDP: Il nome Jambalaya viene dal piatto tipico di New Orleans e, appunto, il vostro stile è una fusione di tanti elementi sonori e di formazione musicale diversa. Come nascono i Jambalaya e perché il 37?
GABRIELE BIEI: JAMBALAYA 37 (originariamente solo Jambalaya e prima ancora Tremè) nascono proprio dalle radici di New Orleans, a seguito di un viaggio fatto da Dario a fine 2004. Lui rimane folgorato dalle band di strada che suonavano nel quartiere Tremè, non a caso proprio di quella città così contaminata da varie culture europee ed africane, dove si serve - anche qui non a caso - la Jambalaya, il tipico piatto piccante a base di fagioli, riso, gamberi, salsiccia, ecc… il numero 37 chiude il cerchio solo nel 2015, quando la band sente di cambiarsi d’abito, ormai usato per dieci anni consecutivi a suon di jazz prevalentemente contaminato da ritmi in levare, soul, drum’n bass, funk. Il 37 è il numero civico del nostro studio musicale, ribattezzato per l'appunto STUDIO 37, dove il nuovo sound è nato, eliminando il levare ed aggiungendo buone dosi di elettronica e r’n’b. Ora ci possiamo definire nu-funk ma il confine dei generi musicali è molto labile in quest’era. LDP: Quello che mi ha colpito ascoltando i vostri due ultimi EP è proprio l'armoniosità della commistione. Funk, straight jazz, soul, pop evoluto, il tutto con un piglio molto cinematico e visionario. Come si sviluppa il vostro processo creativo? GB: Noi cerchiamo di produrre musica innovativa senza però mai dimenticarci della semplicità, elemento emotivo fondamentale per giudicarne la bellezza. I nostri pezzi nascono spesso da un’idea di groove di base e si evolvono con l’aggiunta di armonie, accordi, testi, il tutto senza troppi “controlli” sui generi, ma cercando invece l’aspetto “interessante” di ciò che si sta creando. I vari generi musicali introdotti da ciascuno di noi, in qualità di bagaglio personale, naturalmente confluiscono nei nostri brani. LDP: Il tuo trombone ha un ruolo centrale nel sound dei Jambalaya 37, confermando -se mai ce ne fosse stato bisogno- la dolcezza e la densità di questo strumento. Mi racconti della tua scelta del trombone e chi ti ha influenzato maggiormente? GB: Io iniziai a suonare a sei anni nella banda musicale del paese dove abitavo, accompagnando in levare le marce con il flicorno, presto però passai alla tromba. Ma la passione per il trombone era già insita in me: ero attratto da quel suono sentendolo dal maestro che dirigeva la banda. Ma la vera passione nacque in adolescenza sentendo suonare il trombone in contesti diversi dalle bande. Il suono del trombone mi rappresenta, mi piace e mi affascina, in tutte le sue varie forme di espressione. LDP: Si fa un gran parlare della crisi del supporto discografico nel mondo, in particolare in Italia. Posto che il “pop televisivo” continua ad imperversare nel suo aspetto inevitabilmente popular, per chi come voi percorre altre strade originali e di qualità com'è la situazione? GB: Penso che siano anni veramente pessimi per la cultura in generale, specie in Italia. Io penso che quando vadano a mancare fondi la cultura e il popolo ne risentano sempre, in tutti i vari ceti sociali, senza distinzione sulla "qualità". Un po' come quando si rimane in riserva con l'auto: si va più piano per cercare di arrivare alla meta , il motore ovviamente non dà il meglio di sè.... Poi è vero che magari si cercano e si trovano vie alternative per arrivare alla meta che non si conoscevano, il che è positivo perché nei periodi di crisi nascono delle "alternative" e questo permette di ottenere anche grandi soddisfazioni. LDP: Avete fatto uscire due ottimi EP nel giro di pochi mesi, siete al lavoro per l'uscita di un nuovo album? Quali sono i programmi dei Jambalaya 37 per il futuro? GB: Continuare a produrre musica nostra, fare concerti live con un nuovo repertorio, molto diverso dai precedenti, creare un disco in vinile con diversi brani dei nostri ultimi EP usciti. Fare musica, a 360°, spinti da una passione sonora, di rinnovamento e di sperimentazione. LDP: Molti artisti italiani lamentano l'assenza di luoghi e spazi per musiche differenti dal rock da arena. Voi avete aperto concerti per Wynton Marsalis&Lincoln Jazz Orchestra, Incognito, New York Ska Jazz Ensemble, Rava e Bollani, Roy Paci... com'è la vostra esperienza live? Credi che queste difficoltà logistiche siano sormontabili? GB: Sono e saranno sempre sormontabili, non bisogna mai "aspettarsi o non aspettarsi" qualcosa dal proprio lavoro: si semina, si cura e si raccoglie: annate migliori ed annate peggiori. Fa parte di un progetto. Ho suonato e suono ancora anche in altre band: ognuna ha una storia a sè e i risultati sono indipendenti da tutto, le regole per arrivare ad ottenere grandi successi, a suonare su grandi palchi, festival, non esistono, alle volte è solo "culo".... LDP: Nel vostro felice melting pot sonoro c'è di tutto, come dicevamo, ma siete molto spesso coinvolti nel mondo del jazz, attraverso festival ed iniziative culturali. In un'ideale torta, quanto jazz c'è nei Jambalaya 37? GB: Ah che bella domanda: ho chiesto anche a tutti gli altri di dire la loro: io penso che l'ingrediente jazz nella nostra "torta" corrisponda a circa il 40%, Alessandro e Gilberto optano per il 50/60% mentre Dario rilancia persino al 70%. Certo il jazz, partendo dal primissimo ragtime fino ad arrivare ai dischi più estremi di Hancock e Davis degli anni 70, è un genere molto ampio, alle volte difficile da catalogare in un unico genere musicale. Inoltre aggiungerei che i locali ed i festival jazz, soprattutto negli ultimi anni, hanno aperto le porte a varie contaminazioni del genere, e noi abbiamo sempre partecipato sotto quelle vesti. LDP: Tornando al vostro indiscutibile lato “cinematico”, ascoltandovi è facile rendersi conto che la vostra musica è adattissima per il cinema (penso al brano “Tarlo” in particolare, fantastico...). Siete interessati a comporre musica per film o cortometraggi? GB: È un periodo che ce lo dicono in tanti: sembra che sia veramente uno degli aspetti più espressivi della nostra attuale musica, il che ci ha fatto prendere seriamente in considerazione l'argomento. Durante i dieci anni passati insieme ogni tanto si fantasticava proponendoci di musicare colonne sonore, ma ora forse è arrivato il momento di bussare anche a quella porta, quindi sì! Siamo interessati e ci speriamo. LDP: Ognuno dei cinque membri della band ha un background personale diverso dagli altri, cosa che arricchisce la vostra proposta. Mi dici nello specifico come si caratterizzano le vostre influenze personali all'interno della band? GB: All'incirca così: Dario il bassista/cantante è un veterano della musica ed ovviamente questi sono gli ingredienti principali che porta con sè. Gilberto è un pianista diplomato e laureato sia in musica classica che in musica jazz, oltre che insegnante. Lui è il nostro arrangiatore principale per quanto riguarda gli accordi e gli aspetti "tecnici". Alessandro è un batterista e produttore di musica elettronica, il che lo ha sempre portato a sperimentare beat underground innovativi, ora si accompagna anche con pad e drum machine durante i live. Io, Gabriele, ho invece un passato più rhythm'n blues, reggae, ska, soul ed ora mi diverto a filtrare il suono del trombone con vari pedalini, come fuzz, synth, ecc. Il che mi porta a rileggere in chiave molto più elettronica il mio strumento che naturalmente si alimenta solo "ad aria". La cosa interessante da quando abbiamo aggiunto il 37 è che ora ci divertiamo a sperimentare e quindi a cambiare un po' le carte in tavola, per rendere il tutto un po' più appetitoso. LDP: Torino è già da tanti anni uno dei luoghi più fervidi di idee e di movimento artistico. Cosa pensi della scena musicale della vostra città e di quella italiana al momento, senza distinguo di genere? Al di là delle “evidenze pop” cui accennavamo prima, ci sono musicisti e band che stimate e che come voi seguono un percorso a 360 gradi? GB: Si, Torino è ricca di musicisti, dalle vecchie alle nuove leve, per cui si trovano musicisti con un alto livello di preparazione, e band che suonano di tutto: dalle cover più classiche alle jam session di free jazz, ma non quello "canonico"… proprio quello free free... Non è facile comunque farsi spazio in una città così caotica a livello musicale ed i locali non sempre sono pieni, in ogni caso la vita musicale è abbondante. Ovviamente fuori dal proprio giardino l'erba sembra sempre più verde... LDP: Incidete per la Abformal Recordings di Torino, che mi sembra una di quelle etichette coraggiose che non si limita alla sola resistenza ma propone artisti di valore. Come è nata questa collaborazione? GB: L'Abformal Recordings è l'etichetta che ha come fondatori Alessandro, il nostro batterista, ed un suo collega in musica elettronica, Fabio. Ovviamente il collegamento con l'etichetta è presto che fatto. Però va detto che nelle produzioni della Abformal convergono vari altri artisti e progetti, come un duo di jazz elettronico per esempio. È un'etichetta nata solo nel 2015 e si sta sviluppando, sta acquisendo maggiore visibilità nel panorama, i risultati sono positivi e diversi artisti si stanno avvicinando all'etichetta per avviare delle collaborazioni. Inoltre Alessandro è un grafico diplomato, per cui la giovane età dell'etichetta e l'ottima qualità grafica del marketing che ha alle sue spalle la rendono fresca ed innovativa rispetto alle tradizionali etichette radicate da decenni nelle loro idee. LDP: (PER DARIO BALMAS) Dario, ci dici della tua formazione musicale e delle tue principali influenze bassistiche? Qual è la tua strumentazione al momento? DARIO BALMAS: Nasco come chitarrista e ancora spesso faccio il session-man in diverse band di Rock&Roll, Ska e Funk, ma fin da subito compresi il ruolo potente del basso nel sound di una band, per cui passai alle 4 corde. Lo studio tecnico del basso elettrico fu davvero una breve parentesi di fusion alla Jaco Pastorius e Victor Wooten che abbandonai alcuni anni dopo perché queste timbriche e stili le sentivo ormai obsolete, benchè utili allo studio. Poco dopo mi sono appassionato al contrabbasso e poi ho iniziato a cantare ed ultimamente è nata la passione per la tromba jazz; insomma poco studio specifico dei bassisti ma ho ascoltato tanti cantanti, chitarristi, fiati e musica in generale. Uso un basso Fender indonesiano decisamente economico che avevo acquistato come backup di un 6 corde di liuteria per un viaggio-concerto in Africa. Alla fine ho abbandonato un costoso basso attivo per un basso passivo che vale 10 volte meno ma che sento 10 volte di più. |
LDP: The name Jambalaya comes from the typical dish of New Orleans and indeed your style is a mixture of different sound elements in addition to being the outcome of a diversified musical training. How did Jambalaya37 start out and what about the number 37?
GABRIELE BIEI: JAMBALAYA37 (originally it was only Jambalaya and before that, Tremè) are just born from the roots of New Orleans, after Dario’s journey towards the end of 2004. He was impressed by the street bands that performed in Termè, that is to say the neighborhood of a city that appeared to be so tinged by european and african cultures and that was also the place where it’s used to be served the Jambalaya, the spicy typical dish based on beans, rice, shrimp, sausage and so on. The number 37 closes the loop only in 2015, when the band decided to shed their skin, that has been used for ten consecutive years, with a jazz sound mainly tinged by upbeat rhythms, soul, drum’n bass, funk. The number 37 is referred to the street number of our studio that we have renamed STUDIO 37, where our new sound took shape by removing the upbeat and by adding large doses of electronic music and r’n’b. Now we can be qualified as nu-funk but the boundaries between the genres are now very fine. LDP: What impressed me by listening to your last EP is exactly the right balance in the mix of so many different styles. Funk, straight jazz, soul, enhanced pop, the whole thing performed with a cinematic and visionary edge. How does your creative process develop? GB: We try to produce a kind of innovative music always keeping in mind the semplicity, which means the emotional ingredient that is essential to realize how much amazing it is. Our songs often come out of a groove impression and they develop by the addition of harmonies, chords, lyrics without too many ties. We are used to catch the real “interesting” aspect of what we are achieving. The different musical genres introduced by each one of us as personal background, clearly feed into our tracks. LDP: Your trombone plays an important role for the band’s sound which confirms - as if proof was needed – the softness and the density of the sound. Would you like to explain the choice of this instrument and who did influenced you mostly? GB: I started to play when I was six in the band of the country where I lived, by accompanying upbeat the marches with fluegelhorn, but pretty soon I moved on to the trumpet. But the passion for the trombone was already in my nature: I was drawn to the sound by listening to the master who used to lead the band. But the real passion started in adolescence, when I used to listen to the bands that played the trombone in different contexts. The sound of this instrument suits me, I like it and it fascinates me, in all its different ways of expression. LDP: Much is being said on the crisis of the major record companies in terms of enhancement, especially here in Italy. Given that “television pop” keeps raging on thanks to its clearly popular profile, for those musicians like you who explore other original and high-quality approachs, how’s the situation? GB: I think these are really hard years generally for the culture, especially in Italy. I think that when funds are insufficient, culture and those who reap its benefits, feel adversely affected, regardless of social classes and quality. It’s kind of like when you run out of gas: you go more slowly in order to try to achieve your goal, but the vehicle obviously is not bringing out the best …. Then it’s true that anyone is led to search and find others ways, attains his objective which were therefore unknown; that’s a positive thing because in times of crisis alternatives find a fertile ground which also leads to some great satisfactions. LDP: You have launched two excellent EP within a few months. Are you planning the launch of a new album? What about your projects for the future? GB: We want to keep producing music by ourselves, performing live with a new repertoire that is to be very different from the previous ones, making a vinyl record with many songs included in our last EPs. We are going to make music with a 360° degree vision, driven by the passion for sound, renewal and avant-garde. LDP: Many italian musicians complaints about the shortage of locations and spaces for a kind of music that is different from the arena rock. You opened the concerts of Wynton Marsalis&Lincoln Jazz Orchestra, Incognito, New York Ska Jazz Ensemble, Rava and Bollani, Roy Paci… How do you experience your live performances? Do you think that these logistical difficulties are unbridgeable? GB: These are and will always be passable difficulties, you should never “expect or not expect” anything from your work: you sow, care and reap: there are good and bad years. It’s a part of a project. I played and I still play in other bands: each one has its own background and the outcomes are indipendent from any expectations, the rules to arrive and to be successful, to play on great stage, festivals, don’t exist, sometimes you just got lucky… LDP: In your mixtures of sounds we got all kinds, as we said before, but you are often involved in the world of jazz through festivals and cultural activities. In an ideal pie chart, how much jazz is there in Jambalaya 37? GB: This is a good question: I asked the other members of the band to tell something about it: I think that the jazz component of our ideal pie chart matches to 40%, Alessandro and Gilberto opt for 50/60% while Dario relaunches even to 70%. Surely jazz - starting from the very first ragtime culminating to the more extreme record of Hancock and Davis in the '70s – is a quite extensive genre, sometimes also difficult to catalogue in an unique musical context. Moreover I would add the nightclubs and jazz festivals, most of all over recent years have opened the doors to various melting-pot of the genre, and we have been always involved in that under those shapes. LDP: Back to your undisputable “cinematic” side, by listening to you is easy to realize that your music is very suitable for cinema (I think to the song called “Tarlo” in particular, that’s amazing…) Are you interested in writing music for movies or short films? GB: A lot of people say that in this period: it seems that is really one of the most expressive aspect of our current music, which made us take seriously this possibility. During the ten years spent together we sometimes dreamt about composing music for soundtrack but now maybe the time has come to knock on that door, too. So, yes! We are interested in that and it is something that we hope for. LDP: Each of the five members of the band has a personal background that is very different from the other, which enriches your proposal. Would you like to tell me specifically how are characterised your personal influences inside the context of the band? GB: It’s something like this: Dario – bassist and singer – is a veteran of soul-funk-rock'n roll music and obviously these are the main elements that he takes with him. Gilberto is a graduate pianist and has a degree both in classical music and in jazz as well as a teacher. He is our main arranger as regards chords and “technical” aspects. Alessandro is a drummer as well as electronic music producer, which has always led him to explore innovative beats underground, and now he is accompanied by a pad and drum machine during live performances. As regards me, Gabriele, I have instead a background more inspired by rhythm'n blues, reggae, ska, soul and now I enjoy filtering the sound of trombone with various pedals like fuzz, synth, etc. This is a peculiarity that made me revisit in electronic version my instrument that naturally sustains its self only “by breath”. The interesting thing happened after we added the number 37 is that now we enjoy exploring, that is to say, turning the tables so as to make everything more attractive. LDP: Turin has always been for many years one of the most fervent place full of ideas and artistic excitement. What do you think about the musical scene of your city as well as the italian one, right now regardless of genres? Beyond pop evidences that we told about before, are there any musicians or bands whom you like and who follow, like you, a 360° degree path? GB: Yes, Turin is full of musicians, from older to younger generations, so you can find musicians with an high-level skill and bands that play everything: from the most classical covers to free jazz jam sessions but not exactly the canonical way of playing it.. precisely the real free jazz… Anyway it ain’t easy to make your way in a so caotic city as regards music and nightclubs are always full, in any case musical excitement is really considerable. Clearly out of your garden the grass is always greener… LDP: Your record for Abformal Recordings in Turin, a label that seems to me a courageous model which is not limited to a mere survival but it also launches very talented artists. How did it start your collaboration with it? GB: Abformal Recordings is a label that mentions among its founders Alessandro, our drummer, and a collegue of himself as regards electronic music, Fabio. Obviously the connection with the record company is speedly assumed. But it must be said that different artists and projects are involved in Abformal’s productions, as a duo of electronic jazz, for instance. This is a label that started up only in 2o15 and it is still developing by gaining a greater visibility in the musical landscape, the outcomes are positive and many artists are closing in on the label in order to introduce some active cooperations. Moreover Alessandro is a graduated graphic artist, thus the young age of the label and the excellent graphic quality of marketing promotion at its back makes it cool and innovative compared to some traditional labels so attached to their own views for decades. LDP: (FOR DARIO BALMAS) Dario would you like to tell us anything about your musical training and your main bass influences? What’s your gear at the moment? DARIO BALMAS: I was a guitarist and I still often play as session-man in different Rock&Roll, Ska and Funk bands, but from the very beginning I realized the powerful role of bass for a band, that is why I moved on four strings. The technical approach to the instrument was a really brief digression of fusion in Pastorius as well as Victor Wooten way, but that I gave up some years later because those timbre and styles appeared to be obsolete, even though they were useful to learn. Shortly after I got interested in double bass and then I started to sing and lately I fell in love with jazz trumpet; in other words I never studied specifically bassists but I listened to many singers, guitarists, horn sections and generally to music. I play an indonesian Fender bass that is incredibly cheap, I bought it as backup of a six strings bass handmade for a journey/concert to Africa. In the end I left an expensive active bass for a passive one, which worths ten times less but that sounds well ten times more. |
IL GRANDE RITORNO DEI VIRIDANSE.
INTERVISTA A FLAVIO GEMMA
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Ed io che pensavo che il mio disco del 2015 fosse “Pylon” dei Killing Joke... già, perché ogni volta che mi capita di incappare in un nuovo lavoro di Jaz Coleman e combriccola mi rallegro che ci siano ancora e che siano ancora selvaggi. Ma i Killing Joke entrano in questo prologo solo per dire che non avevo fatto i conti con il grande ritorno dei Viridanse, una band che avevo tanto amato nei miei primi anni di formazione musicale. Chiaramente sapevo della ricostituzione della band di Alessandria -ed era già una splendida notizia in sè- ma il disco semplicemente intitolato “Viridanse” (fantastica scelta minimalista) va al di là di ogni rosea aspettativa. Disco gelido e caldissimo, e mi piace ancora da morire scrivere 'disco', tagliente, elettrico, visionario, disco serissimo di una band serissima. Disco di rock italiano potente, fedele al prima e innamorato musicalmente dell'ora e del dopo, disco che ripropone una fascinazione antica collocandola nell'attimo nuovo, in questi tempi, senza nessuna sbavatura spazio-temporale. I Viridanse non hanno bisogno di agiografie ed esaltazioni, perché arrivano al cuore dell'emozione con la musica. E noi di questo stiamo parlando. Finalmente, con i Viridanse, sappiamo che ci stiamo occupando di musica. Non voglio cercare e trovare definizioni di genere per questo splendido ritorno eponimo. Potrei scrivere new wave, post punk, rock puro ed elettrico, ma in realtà questo è un disco, il disco del ritorno, dei Viridanse. E va scoperto, indagato, consumato.
Con Flavio Gemma, bassista della band, parliamo di questo ritorno così denso, un nuovo inizio che sembra preludere ad una presenza in pianta stabile nei territori oscuri e luminosissimi del rock.
Ndr. Oltre a ringraziare Flavio e la band tutta, ci tengo a dire che ho provato un brivido di gioia nel sentire Flavio citare Percy Jones, Jack Bruce e Chris Squire, figure formative e imprescindibili. Le influenze “aperte” (Flavio consuma massicce dosi di musica estrema, di free jazz...) dicono tanto sempre di un musicista. Ero certo, conoscendo i Viridanse, di incontrare un musicista “open minded”. Così è stato.
Con Flavio Gemma, bassista della band, parliamo di questo ritorno così denso, un nuovo inizio che sembra preludere ad una presenza in pianta stabile nei territori oscuri e luminosissimi del rock.
Ndr. Oltre a ringraziare Flavio e la band tutta, ci tengo a dire che ho provato un brivido di gioia nel sentire Flavio citare Percy Jones, Jack Bruce e Chris Squire, figure formative e imprescindibili. Le influenze “aperte” (Flavio consuma massicce dosi di musica estrema, di free jazz...) dicono tanto sempre di un musicista. Ero certo, conoscendo i Viridanse, di incontrare un musicista “open minded”. Così è stato.
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LDP: Flavio, ti dico che personalmente trovo il vostro disco una boccata di ossigeno, una boccata cupa e necessaria. Il vostro ritorno dopo trent'anni è una sorpresa coraggiosa ed effettivamente, come scrivete sul vostro website, lacera apertamente il tessuto del rock italiano indipendente. Insomma, un ritorno potente ma anche un gesto di rottura chiaro. Mi racconti della nascita e della gestazione del vostro lavoro?
FLAVIO GEMMA: È un lavoro cercato e voluto, con Enrico (Ferraris, ndr) abbiamo sentito la voglia di ritrovarci e costruire un progetto nuovo, il Viridanse! Appena ricostruita la line-up (Gianluca Piscitello alla voce, Fabrizio Calabrese alla batteria, Giancarlo Sansone alle tastiere, io al basso e Enrico alle chitarre) abbiamo subito ricostruito versioni di brani tratti dal primo demo e da Cellini, e portati subito in concerto l'anno scorso in una serata storica con gli amici Diaframma. Da lì in poi, nei primi cinque mesi del 2015 ho proposto e"jammato" i brani che senti del disco.
LDP: Il vostro non è un lavoro passatista e il suono, forgiato in tante pagine del rock non commerciale e non solo, ha una sua insospettabile modernità. Io credo, anzi, che “Viridanse” abbia un significato preciso, uscendo ai nostri giorni. Potremmo dire che la new wave elettrica e dark non è mai sparita in assoluto e certo non dai vostri cuori?
FG: Le influenze che attraversano il disco nelle composizioni e nella produzione che ho fatto passano attraverso i miei amori musicali degli ultimi anni, ma nel mio bagaglio musicale danzano sempre i periodi folgoranti della mia crescita artistica, post-punk e wave, ma anche molto il prog anni ‘70.
LDP: “Viridanse” è il primo lavoro dopo trent'anni. Come vedi la scena attuale e come pensi sia sopravvissuta -sempre se lo ha fatto- la flotta di band a voi affini di quegli anni irripetibili? E per affini intendo solo a voi vicini, perché ho sempre considerato i Viridanse come storia autonoma e (davvero) indipendente.
FG: Sì, hai ragione, mi sento indipendente da una scena possibile, mi sento piu “legato” agli Area come attitudine di pensiero...La scena attuale italiana è ricca di stimoli e di grandi artisti, musicisti anche di peso internazionale, penso e ti cito volentieri Sadist, Zu, Lili Refrain, Ufomammut, Bachi di Pietra, e tanti altri, ma tutte le sale prove sono piene di band talentuose e preparate, bisogna farle uscire e farle conoscere.
LDP: L'album ha sonorità cupe, è saturo di zone d'ombra che, per il contrasto al quale probabilmente tendevate, illuminano però una visione compatta e poco compromissoria della vostra musica. “Samsara” è incredibile in questo senso, una dichiarazione d'intenti. La gioia, per chi vi ha seguiti allora e vi scoprirà adesso, è constatare che non avete ceduto al mainstream. Ma l'Italia di oggi non è troppo stretta per i Viridanse?
FG: L'Italia musicale lo sappiamo com'è stretta per tutti i musicisti che hanno cose da dire, ma cerchiamo di essere positivi e costruire; se esisti tu e se esisto io è già qualcosa non trovi? L'importante è crederci, non mollare e non pensare di essere"ghetto", c'è tanta gente che ha voglia di nuovi stimoli, di ascolti forti! Si è vero, Viridanse è un album saturo di tinte ombrate, amo la letteratura horror!
LDP: E a questo proposito, in Italia il vostro nuovo album è uscito per la Fonoarte/Danze Moderne, molto meritoria nel perseguire un certo coraggio imprenditoriale, nel deserto di idee circostante. Come è nata la collaborazione con loro? Contate di avere una distribuzione estera per il disco?
FG: Facendo la campagna su musicraiser Carlo Fulvi, patron di Danze Moderne, ci ha visto su Fb e subito contattato, abbiamo parlato, ci siamo piaciuti nelle linee d'intesa artistica e....voilà!
Sì, Danze Moderne si appoggia ad un distributore americano.....
LDP: Dato che mi occupo con tanta attenzione del basso elettrico, deviamo su Flavio Gemma bassista e concentriamo tutto in questa domanda. Perché il basso? Ci vuoi parlare delle tue prime ispirazioni in materia bassistica, la tua strumentazione attuale...
FG: Il primo bassista che mi ha folgorato da fanciullo è stato Chris Squire degli Yes, unico nel tinteggiare melodie e sparare ritmo, poi Percy Jones, mago e alchimista del basso, per poi incontrare una sera a Genova nel lontano 1981 Steve Severin con Siouxsie.
Oggi uso un Washburn, anima metallica che accresce la distorsione alla Jack Bruce (me lo ha detto il carissimo Ufo dei mitici Zen Circus), ma posseggo anche un Fender Jazz.
LDP: Il genere (che è poi un crocevia di assimilazioni, rivisitazioni e impronta personale) dei Viridanse implica uno smaccato uso del basso suonato, diciamolo per comodità, con piglio wave e post-punk. Mi piace moltissimo la tua presenza in particolare su “Credi”, dove il groove è fluido e suggestivo. Tu hai un suono equilibrato, carico il giusto ma non fuorviante. Dita o plettro?
FG: Dita e Plettro.....
LDP: Il vostro disco, come è sacrosanto che sia, sta riscuotendo critiche unanimi molto lusinghiere su magazines, siti web specializzati, blog. Il passaparola è forte ed io stesso posso testimoniare lo stupore e il grande interesse per il vostro ritorno. Con questi presupposti, posso chiederti i programmi futuri della band?
FG: Sto già lavorando sui brani nuovi del prossimo disco, nel frattempo stiamo preparando il video di Disordine e naturalmente concerti. Sono felicissimo che il disco stia piacendo, e venga inteso nella sua vera natura, un concept da ascoltare e riascoltare!
LDP: I vostri testi sono a mio avviso focalizzati su un romanticismo particolare, dalle tinte notturne, e qui torna anche l'aggettivo “elettriche”. Le vostre sono parole di resistenza, passionalità, rischio. I Viridanse hanno un'indiscutibile aura letteraria. Sei d'accordo? Pensate di poter avere connessioni anche con la letteratura e con progetti multidisciplinari?
FG: Sicuramente, vista la collaborazione per il booklet del disco con il pittore Antonio DeNardis e l'artista Roberta Pizzorno, opere che mandiamo in video durante i concerti. Grazie per il commento riguardo l'aura letteraria, giro il tutto a Gianluca! (a parte Ixaxar, testo che ho tratto da un racconto di A.Machen....brivido......). Sì, parole di resistenza e passione, giusta miscela per essere veramente vivi.
LDP: Restando in tema di “altre arti”, nel booklet del cd ci sono immagini di opere di Antonio De Nardis e Roberta Pizzorno, che ben si sposano alla vostra proposta. Come si è concretizzata questa collaborazione “figurativa”?
FG: Antonio De Nardis aveva già realizzato un quadro ispirandosi a Vaso Cinese, da lì l'ho contattato e quando ho visto le sue nuove opere....folgorazione, aveva già dipinto senza saperlo le nostre musiche! Stessa cosa per le chine di Roberta Pizzorno, me ne sono innamorato. Dove Antonio esprime pathos Roberta esprime la luce di una parte dei nostri brani.
LDP: Facciamo un passo indietro: nel 2012 è uscita una vostra raccolta, “Gallipoli 1915 e le altre storie”, che conteneva il leggendario EP “Benvenuto Cellini”. Mi chiedevo, sull'onda del “Viridanse” 2015, se pensate possano esserci ristampe in vinile dell'ep in questione e del mai dimenticato “Mediterranea”...
FG: Per le ristampe di Mediterranea e Cellini, ma anche degli inediti di Psyco Session del 1987 ci sta già pensando Danze Moderne, per la prossima primavera.
LDP: Non posso non chiederti, poi, un'opinione sulla questione disco fisico e downloading. Come la vedi? Possibile un'armonia, un compromesso, una per così dire reciproca tolleranza?
FG: Amo e amerò sempre e incondizionatamente il disco!!!!
LDP:Grazie Flavio!
FG: Grazie a te Luca, grazie!!!!!!
FLAVIO GEMMA: È un lavoro cercato e voluto, con Enrico (Ferraris, ndr) abbiamo sentito la voglia di ritrovarci e costruire un progetto nuovo, il Viridanse! Appena ricostruita la line-up (Gianluca Piscitello alla voce, Fabrizio Calabrese alla batteria, Giancarlo Sansone alle tastiere, io al basso e Enrico alle chitarre) abbiamo subito ricostruito versioni di brani tratti dal primo demo e da Cellini, e portati subito in concerto l'anno scorso in una serata storica con gli amici Diaframma. Da lì in poi, nei primi cinque mesi del 2015 ho proposto e"jammato" i brani che senti del disco.
LDP: Il vostro non è un lavoro passatista e il suono, forgiato in tante pagine del rock non commerciale e non solo, ha una sua insospettabile modernità. Io credo, anzi, che “Viridanse” abbia un significato preciso, uscendo ai nostri giorni. Potremmo dire che la new wave elettrica e dark non è mai sparita in assoluto e certo non dai vostri cuori?
FG: Le influenze che attraversano il disco nelle composizioni e nella produzione che ho fatto passano attraverso i miei amori musicali degli ultimi anni, ma nel mio bagaglio musicale danzano sempre i periodi folgoranti della mia crescita artistica, post-punk e wave, ma anche molto il prog anni ‘70.
LDP: “Viridanse” è il primo lavoro dopo trent'anni. Come vedi la scena attuale e come pensi sia sopravvissuta -sempre se lo ha fatto- la flotta di band a voi affini di quegli anni irripetibili? E per affini intendo solo a voi vicini, perché ho sempre considerato i Viridanse come storia autonoma e (davvero) indipendente.
FG: Sì, hai ragione, mi sento indipendente da una scena possibile, mi sento piu “legato” agli Area come attitudine di pensiero...La scena attuale italiana è ricca di stimoli e di grandi artisti, musicisti anche di peso internazionale, penso e ti cito volentieri Sadist, Zu, Lili Refrain, Ufomammut, Bachi di Pietra, e tanti altri, ma tutte le sale prove sono piene di band talentuose e preparate, bisogna farle uscire e farle conoscere.
LDP: L'album ha sonorità cupe, è saturo di zone d'ombra che, per il contrasto al quale probabilmente tendevate, illuminano però una visione compatta e poco compromissoria della vostra musica. “Samsara” è incredibile in questo senso, una dichiarazione d'intenti. La gioia, per chi vi ha seguiti allora e vi scoprirà adesso, è constatare che non avete ceduto al mainstream. Ma l'Italia di oggi non è troppo stretta per i Viridanse?
FG: L'Italia musicale lo sappiamo com'è stretta per tutti i musicisti che hanno cose da dire, ma cerchiamo di essere positivi e costruire; se esisti tu e se esisto io è già qualcosa non trovi? L'importante è crederci, non mollare e non pensare di essere"ghetto", c'è tanta gente che ha voglia di nuovi stimoli, di ascolti forti! Si è vero, Viridanse è un album saturo di tinte ombrate, amo la letteratura horror!
LDP: E a questo proposito, in Italia il vostro nuovo album è uscito per la Fonoarte/Danze Moderne, molto meritoria nel perseguire un certo coraggio imprenditoriale, nel deserto di idee circostante. Come è nata la collaborazione con loro? Contate di avere una distribuzione estera per il disco?
FG: Facendo la campagna su musicraiser Carlo Fulvi, patron di Danze Moderne, ci ha visto su Fb e subito contattato, abbiamo parlato, ci siamo piaciuti nelle linee d'intesa artistica e....voilà!
Sì, Danze Moderne si appoggia ad un distributore americano.....
LDP: Dato che mi occupo con tanta attenzione del basso elettrico, deviamo su Flavio Gemma bassista e concentriamo tutto in questa domanda. Perché il basso? Ci vuoi parlare delle tue prime ispirazioni in materia bassistica, la tua strumentazione attuale...
FG: Il primo bassista che mi ha folgorato da fanciullo è stato Chris Squire degli Yes, unico nel tinteggiare melodie e sparare ritmo, poi Percy Jones, mago e alchimista del basso, per poi incontrare una sera a Genova nel lontano 1981 Steve Severin con Siouxsie.
Oggi uso un Washburn, anima metallica che accresce la distorsione alla Jack Bruce (me lo ha detto il carissimo Ufo dei mitici Zen Circus), ma posseggo anche un Fender Jazz.
LDP: Il genere (che è poi un crocevia di assimilazioni, rivisitazioni e impronta personale) dei Viridanse implica uno smaccato uso del basso suonato, diciamolo per comodità, con piglio wave e post-punk. Mi piace moltissimo la tua presenza in particolare su “Credi”, dove il groove è fluido e suggestivo. Tu hai un suono equilibrato, carico il giusto ma non fuorviante. Dita o plettro?
FG: Dita e Plettro.....
LDP: Il vostro disco, come è sacrosanto che sia, sta riscuotendo critiche unanimi molto lusinghiere su magazines, siti web specializzati, blog. Il passaparola è forte ed io stesso posso testimoniare lo stupore e il grande interesse per il vostro ritorno. Con questi presupposti, posso chiederti i programmi futuri della band?
FG: Sto già lavorando sui brani nuovi del prossimo disco, nel frattempo stiamo preparando il video di Disordine e naturalmente concerti. Sono felicissimo che il disco stia piacendo, e venga inteso nella sua vera natura, un concept da ascoltare e riascoltare!
LDP: I vostri testi sono a mio avviso focalizzati su un romanticismo particolare, dalle tinte notturne, e qui torna anche l'aggettivo “elettriche”. Le vostre sono parole di resistenza, passionalità, rischio. I Viridanse hanno un'indiscutibile aura letteraria. Sei d'accordo? Pensate di poter avere connessioni anche con la letteratura e con progetti multidisciplinari?
FG: Sicuramente, vista la collaborazione per il booklet del disco con il pittore Antonio DeNardis e l'artista Roberta Pizzorno, opere che mandiamo in video durante i concerti. Grazie per il commento riguardo l'aura letteraria, giro il tutto a Gianluca! (a parte Ixaxar, testo che ho tratto da un racconto di A.Machen....brivido......). Sì, parole di resistenza e passione, giusta miscela per essere veramente vivi.
LDP: Restando in tema di “altre arti”, nel booklet del cd ci sono immagini di opere di Antonio De Nardis e Roberta Pizzorno, che ben si sposano alla vostra proposta. Come si è concretizzata questa collaborazione “figurativa”?
FG: Antonio De Nardis aveva già realizzato un quadro ispirandosi a Vaso Cinese, da lì l'ho contattato e quando ho visto le sue nuove opere....folgorazione, aveva già dipinto senza saperlo le nostre musiche! Stessa cosa per le chine di Roberta Pizzorno, me ne sono innamorato. Dove Antonio esprime pathos Roberta esprime la luce di una parte dei nostri brani.
LDP: Facciamo un passo indietro: nel 2012 è uscita una vostra raccolta, “Gallipoli 1915 e le altre storie”, che conteneva il leggendario EP “Benvenuto Cellini”. Mi chiedevo, sull'onda del “Viridanse” 2015, se pensate possano esserci ristampe in vinile dell'ep in questione e del mai dimenticato “Mediterranea”...
FG: Per le ristampe di Mediterranea e Cellini, ma anche degli inediti di Psyco Session del 1987 ci sta già pensando Danze Moderne, per la prossima primavera.
LDP: Non posso non chiederti, poi, un'opinione sulla questione disco fisico e downloading. Come la vedi? Possibile un'armonia, un compromesso, una per così dire reciproca tolleranza?
FG: Amo e amerò sempre e incondizionatamente il disco!!!!
LDP:Grazie Flavio!
FG: Grazie a te Luca, grazie!!!!!!
Luca De Pasquale-Manuela Avino 2015
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Vorrei partire da una breve premessa.
Quando ero ragazzo, già appassionato di hard rock ed heavy metal, incappare in un (buon) disco solista di un bassista del genere era davvero un evento. I bassisti di area hard incidevano pochissimi lavori solisti. In Italia il non fenomeno era ancora più evidente. Si faceva festa se uscivano dischi di Billy Sheehan, Stuart Hamm e pochissimi altri: tutto il resto delle uscite soliste di bassisti sconfinava nella fusion. Una fusion che iniziò a parodiare se stessa fino allo sfinimento. Era desolante. Questo breve cappello per dire che sarei stato felice, all'inizio degli anni '90, di accogliere un lavoro come quello che Enio Nicolini, figura storica del metal italiano, ha rilasciato da pochi giorni sotto l'egida dell'etichetta Buil2Kill, “Heavy Sharing”. Enio Nicolini non ha bisogno di presentazioni. Bassista solidissimo, “centrale” ma mai prolisso, metronomico misuratore di basse frequenze con The Black, Unreal Terror, Akron. “Heavy Sharing” è, innanzitutto, un'ottima idea davvero; basso e batteria come base, vocals a cura di ospiti carismatici e di grosso impatto nella scena hard internazionale. Non il solito disco di assoli di basso; non il consueto showdown in cui, alla fine, il basso inizia pericolosamente a somigliare ad una chitarra a sette corde. I riff di Enio, in questo lavoro, sono saturi: aggettivo che spero renda -in chiave assolutamente positiva- la portata del suo suono. Il cd è uscito da poco, mi sento di consigliarlo sinceramente non solo a chi nel metal ci crede per davvero e a chi ama il basso elettrico con valenze rock, ma a chiunque sia curioso di ritrovare o scoprire un musicista con un curriculum sontuoso che ancora, più di tante nuove leve con poco alle spalle, riesce a dare forma alla curiosità ed alla sperimentazione in modo accattivante e degno. Degno è una parola che con il metal si accorda bene, e naturalmente anche con un personaggio come Enio Nicolini. Vi lascio alla nostra intervista. |
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LDP: Enio, innanzitutto complimenti per la tua iniziativa. Coraggiosa e unica, nel panorama metal italiano. Un disco per basso, batteria e voci. Dove il basso è ovviamente l’elemento ritmico, ma anche quello melodico. Come è maturata quest’idea?
EN: Tutto parte da un'esigenza di ricerca dell'essenziale e dell'impatto diretto. Questa esperienza l'ho iniziata già nel 2013, quando per la BloodRock/Black Widow uscì "A matter of Time" con il progetto Sloe Gin, sempre basso,batteria e voce; un combo senza ospiti che vedeva Eugenio Mucci alla voce e Giuseppe Miccoli alla batteria (due ex Requiem).
LDP: Altra idea innovativa–in un album di sezione ritmica factotum- è stata quella di attorniarti di ospiti prestigiosi alle voci. Dall’ex Maiden Blaze Bayley a Trevor dei Sadist, Morby, Ben Spinazzola, il tuo compagno negli Unreal Terror Luciano Palermi, John Cardellino, Tiziana Radis, Giacomo Gigantelli, Mahdi Khema, Daniele “Bud” Ancillotti… Ospiti ragguardevoli. Mi parli della gestazione dell’album e di queste collaborazioni?
EN: Premetto che la gestione di questo progetto mi ha dato delle emozioni incredibili, sia per la grande disponibilità degli ospiti e sia per la loro grande professionalità. La mia idea era quella di realizzare un prodotto semplice ma allo stesso tempo di grande impatto sonoro. Una possente base ritmica, supportata da un groove aggressivo, personalizzato di volta in volta dagli ospiti, ho pensato potesse essere la chiave giusta per "Heavy Sharing" . Quindi, una volta catturate le caratteristiche di ogni ospite ho cercato di realizzare per ognuno di loro una base ritmica, dove potevano poi costruire un testo ed una melodia. Elemento importante che voglio sottolineare è che nessuno conosceva il proprio brano. Questo ha dato il valore aggiunto a tutto il lavoro.
LDP: Sei una figura di riferimento del metal italiano, memoria storica ma sempre pronto a rimetterti in gioco: questo progetto ne è la riprova. Ne approfitto per chiederti che cosa pensi della scena metal italiana di oggi e quali sostanziali differenze trovi con quella che ti accolse agli inizi della tua carriera.
EN: La scena metal italiana è sempre in divenire; ne sono la riprova i tanti Festivals che si propongono e le tante nuove proposte. Noto anche con piacere che c'è un ritorno di molte band del primo periodo, quindi una nuova linfa che si rigenera. La sostanziale differenza tra il periodo degli anni 80/90 e oggi è sostanzialmente Internet. Questo mezzo ha stravolto la comunicazione e le opportunità. Tutto è visibile in tempo reale a chiunque, anche se alle volte con la stessa velocità scompari.
LDP: Domanda che non posso non farti, ci racconti dei tuoi inizi e della scelta del basso? Quali bassisti ti hanno maggiormente influenzato e quali, nella scena attuale, ritieni i migliori in ambito metal?
EN: Nasco come bassista, anche se da ragazzino ho iniziato studiando contrabbasso. Da ragazzino, la scelta dello strumento mi è stata stimolata dall' ascolto delle prove del gruppo beat di mio cugino, i Gens (gruppo famoso in Italia negli anni settanta con il brano "In fondo al viale"). Il loro bassista aveva un Vox con un suono molto intenso e penetrante e lì ho razionalizzato che quello era il mio strumento. Dopo, crescendo, i bassisti che maggiormente mi hanno influenzato sono stati fondamentalmente il grande Mel Schacher dei Grand Funk, che aveva un suono ruvido e innovativo, come pure il fantasioso John Entwistle degli Who, ma senza dimenticare il funambolico Phil Lynott dei Thin Lizzy. Della scena attuale metal mi piace ricordare Cliff Burton dei Metallica, Steve Harris, uno dei migliori bassisti ritmici, e per affetto oltre che per stima Lemmy dei Mothoread.
LDP: Vorrei anche una tua opinione sulla situazione del mercato discografico metal in Italia e, per esteso, in genere. Innanzitutto, cosa pensi della “liquidità” della musica, delle “strategie di download”? Pensi che il supporto fisico possa essere veramente in via d’estinzione? Credi che l’heavy metal possa contare ancora su uno zoccolo duro che possa preferire l’album in vinile ed in cd? Vedi una guerra possibile tra la realtà del download ed il diritto d’autore?
EN: Le nuove tecnologie sicuramente hanno modificato il mercato del supporto fisico Cd e Vinile, ma di contro hanno favorito una maggiore diffusione e anche un mercato nuovo, dalle regole differenti. Il mondo è cambiato e quindi bisogna adeguarsi a queste nuove regole. Il supporto fisico, soprattutto il vinile, credo non andrà mai in estinzione, non fosse altro per il mercato del collezionismo e ne noto anche un ritorno. L' Heavy Metal sicuramente si presta molto al vinile, questo è anche dimostrato da alcune recenti produzioni. Per i diritti d'autore c'è un po' di confusione nelle procedure, specialmente nella Siae, comunque spero che in un prossimo futuro non si faccia una guerra, ma un accordo chiaro tra i download e i diritti d'autore.
LDP: In “Heavy sharing” l’uso del basso è molto differente dalle scelte tipiche e dall’estetica generale dei dischi solisti di bassisti dell’area hard. In genere, da un disco solista di bassista metal ci si aspetta un’esuberanza strumentale che può patire in termini di creatività. Le tue linee, solide e sorrettive, sono molto potenti e concedono un minimo spazio al virtuosismo, il pezzo in cui giochi di più su questo è “Ai confini del mondo”, sostenuto da un’efficace base elettronica. Ti sei soffermato sul suono e sulla struttura dei pezzi, scelta che ci piace, invece di indugiare magari in un hard rock di maniera con assoli di basso, come appunto accade spesso. Mi dici come consideri debba essere, per così dire, il basso nell’heavy metal? C’è secondo te una contrapposizione tra bassisti di scuola Geezer Butler e gli innovatori di fretless a sei corde nel death, nel black, etc? E c’è una REALE contrapposizione, volendo fare solo due nomi, tra uno come Ian Hill e Steve DiGiorgio?
EN: È vero, in Heavy Sharing l'uso del mio basso non è basato su virtuosismi ma piuttosto su costruzioni ritmiche che poi credo sia la mia caratteristica. Ho cercato di dare al basso un ruolo portante, centrale ed anche essenziale a supporto delle voci. Il basso nell' Heavy Metal deve avere ed ha un ruolo fondamentale di supporto con la batteria alle dinamiche ritmiche del brano. Costituiscono la base solida d'impatto sonoro e il groove del brano, anche perché senza questo le chitarre, che sono l'emblema e la caratteristica del metal, non avrebbero modo di uscire dal brano e dare la sferzata tipica al sound. La mia scelta di andare fuori dagli schemi classici del Metal è stata sicuramente coraggiosa e comunque vuole essere anche un modesto esempio di come una solida base ritmica può, nella sua essenzialità, dare lo stesso groove ed essere in equivalenza con i canoni propri del Metal. Nel brano "Ai confini del mondo" mi sono messo alla prova e in discussione su un pezzo di elettronica. Personalmente lo trovo giusto anche perché la musica ha bisogno di sperimentazioni. Oggi il basso ha avuto le sue evoluzioni, certo dalle solite 4 corde oggi arriviamo ad usarne fino a 6. Personalmente ho avuto poca esperienza con bassi a 5 e 6 corde. Sì, è vero, danno una maggiore disponibilità di sonorità e spesso sono molto utili, ma attenzione alle mode. Personalmente sono un bassista da 4 corde classiche, ruvide "Rotosound scala 45-105"... Steve DiGiorgio (Testament, Death) è un bassista dall'impatto sonoro immediato, deciso, con un suono aggressivo e moderno, e lo preferisco oggi all'ascolto, senza togliere nulla al grande Ian Hill (Judas Priest), il quale ha fatto scuola per quanto riguarda il come usare il basso nel tessere una ritmica di base, senza fronzoli ma essenziale nel creare le strutture giuste per le chitarre. Se c'è fra loro una contrapposizione? Credo che siano complementari e comunque due grandi a cui va il mio assoluto rispetto.
LDP: Utenza e pubblico italiano. Il paese, musicalmente parlando, è funestato da oscene trasmissioni spesate e direzionate da major sempre più orientate verso la banalità di un pop urlato senza nessun’anima. I più catastrofisti dicono che l’Italia non è mai stato un paese davvero rock. Tu cosa risponderesti su questo? Il rock, ed in particolare il rock duro, è stato e sarà sempre di nicchia in questo paese?
EN: È una vecchia storia! Il Rock in Italia oggi è una realtà, a differenza dagli anni 60/70 dove eravamo in una fase di "apprendimento" anche se nel Progressive eravamo più in linea. Comunque, il nostro Paese ha radici diverse dagli altri Paesi Europei e d'oltre oceano. Non dobbiamo dimenticare la musica lirica e la musica napoletana degli anni '30 e del dopoguerra che hanno segnato nel bene e nel male il nostro background culturale. Una cosa è certa: la melodia della musica italiana è riconoscibile ancora oggi e anche il Metal Made in Italy lo porta nel suo dna e sicuramente questo è un valore aggiunto. Cosa diversa è il mercato discografico che ha regole legate al marketing più bieco e più di massa che non presta troppa attenzione alle proposte più alternative. Questo ci sta in una società consumistica, ma noi che viviamo anche di tanta passione, possiamo orientare un po' il mercato del Metal, soprattutto con la nostra partecipazione, perché solo con il supporto sempre più presente riusciamo a innescare sempre maggiori interessi.
LDP: “Heavy Sharing” (titolo molto significativo) esce per la Buil2Kill. Che puoi dirci di questa label? Tu in passato, con Unreal Terror, The Black, Akron hai lavorato con la storica Black Widow. Pensi che label specializzate in Italia debbano affrontare una sorta di “prova di resistenza” per restare coerenti a ciò che intendono proporre?
EN: Nel titolo c'è l'essenza della mission del progetto "insieme in condivisione in nome del metal”. Aver incontrato i ragazzi della Buil2Kill /Nadir Music è stato molto costruttivo. Loro sono molto professionali e soprattutto si respira una bella aria e si riesce ad avere condivisioni senza ombre alcune. Con la storica Black Widow c'è sempre un discorso aperto per via dei The Black. In Italia viviamo di prove di resistenza in diversi campi e quindi anche le label devono fare i conti con tutto questo, ma loro sono vincenti, perché oltre all'abnegazione e al lavoro, senza trascurare il marketing, hanno come valore aggiunto la passione e il credo.
LDP: Nel tuo lavoro solista, come dicevamo, ci sono dieci singer per dieci pezzi diversi. Hai in programma un tour e pensi di coinvolgere qualcuno di questi ospiti illustri anche nella tournée?
EN: Ci sto lavorando, non è semplice ma qualche data si farà. Tutto dipende dalla disponibilità degli ospiti. Comunque ci sarà un Tour Clinic dove presenterò il cd suonando su una base.
LDP: Ora ti chiedo, e sono molto curioso di questo, la tua strumentazione attuale. Collezioni anche strumenti?
EN: La mia strumentazione attuale da tour comprende un Fender Precision del 74, un Kramer del 83 è una Esp più fresca del 2001. Corde rigorosamente Rotosound scala 45-105. Uso anche una pedaliera della Pearl con vari effetti e sono molto affezionato ad un vecchio Overdrive per basso PD7 della Ibanez che ho usato in qualche brano di "Heavy Sharing". In studio e a casa ho anche un basso Ibanez sempre a 4 corde per provare nuovi riff oltre ad un basso acustico Fender. Mi accompagna da ragazzino il mio vecchio contrabbasso con cui ho iniziato. Una chitarra Yamaha e una Ovation, entrambe acustiche, fanno da accompagnamento. Mi dispiace di non avere con me i miei primi strumenti e soprattutto il mio primo basso elettrico, che i miei mi comprarono in terza media, un meraviglioso Ariston modello Hofner (forma di violino): è proprio con quello che ho iniziato le prime note.
LDP: Non ti lascio sfuggire una breve e libera domanda alla Nick Hornby: senza preclusioni di genere e numero, mi dici i tuoi dischi fondamentali, quelli cui non potresti mai e poi mai rinunciare?
EN: Mi va di citarti album che sono stati molto importanti per la mia crescita: “Are you Experienced"di Jimi Hendrix (genialità ed evoluzione), "Paranoid" dei Black Sabbath (nascita del doom), "Grand Funk" dei Grand Funk (Railroad) (affascinanti nella loro essenzialità e un grande suono di basso) e poi “In-A-Gadda-Da-Vida degli Iron Butterfly (metal e psichedelia).
LDP: Ultima domanda, prima di lasciare un saluto ai tuoi numerosi fan. Domanda che non ho mai fatto a nessun altro musicista e che inauguro qui con te: vuoi consigliare, oltre al tuo disco notevole che consiglio io in prima persona, cinque dischi che ogni buon metaller appassionato di basso elettrico dovrebbe ascoltare?
EN: Non è semplice indicare dei suggerimenti, comunque i primi cinque dischi che mi sento di proporre in maniera istintiva sono "Kill 'em All" dei Metallica con un grande Cliff Burton al basso, "Into Glory Ride" dei Manowar con un poderoso Joey De Maio, "The Gathering" dei Testament con l'innovatore Steve DiGiorgio e il suo fretless bass, "Powerslave" con il poliedrico e grande ritmico Steve Harris, e non posso non citare "Ace of Spades" dei Motorhead con il granitico e ferruginoso basso di Lemmy Kilmister.
ENIO NICOLINI MAIN DISCOGRAPHY
Unreal Terror
HEAVY AND DANGEROUS 1985
HARD INCURSION 1986
Song "Pulling the switch" su ROCK MEETS METAL (Compilation) 1987
The Black
ABBATIA SCL CLEMENTIS 1993
REFUGIUM PECCATORUM 1995
APOCALYPSIS 1996
Song "Suspiria et..." su E TU VIVRAI NEL TERRORE (Compilation) 1997
GOLGOTHA 2000
PECCATIS NOSTRIS/CAPISTRANI PUGNATOR 2004
GORGONI 2010
Akron
"Il mulino delle donne di pietra" su E TU VIVRAI NEL TERRORE (Compilation) 1997
LA SIGNORA DEL BUIO 2000
IL TEMPIO DI FERRO 2002
Sloe Gin
A MATTER OF TIME 2013
Secret Tales
L'ANTICO REGNO 2014
Enio Nicolini
HEAVY SHARING 2014
Libri
ROCK N FOLLIA 1997 Edizioni Tracce (Illustrazioni by MARIO DI DONATO)
©Luca De Pasquale/Manuela Avino 2015
EN: Tutto parte da un'esigenza di ricerca dell'essenziale e dell'impatto diretto. Questa esperienza l'ho iniziata già nel 2013, quando per la BloodRock/Black Widow uscì "A matter of Time" con il progetto Sloe Gin, sempre basso,batteria e voce; un combo senza ospiti che vedeva Eugenio Mucci alla voce e Giuseppe Miccoli alla batteria (due ex Requiem).
LDP: Altra idea innovativa–in un album di sezione ritmica factotum- è stata quella di attorniarti di ospiti prestigiosi alle voci. Dall’ex Maiden Blaze Bayley a Trevor dei Sadist, Morby, Ben Spinazzola, il tuo compagno negli Unreal Terror Luciano Palermi, John Cardellino, Tiziana Radis, Giacomo Gigantelli, Mahdi Khema, Daniele “Bud” Ancillotti… Ospiti ragguardevoli. Mi parli della gestazione dell’album e di queste collaborazioni?
EN: Premetto che la gestione di questo progetto mi ha dato delle emozioni incredibili, sia per la grande disponibilità degli ospiti e sia per la loro grande professionalità. La mia idea era quella di realizzare un prodotto semplice ma allo stesso tempo di grande impatto sonoro. Una possente base ritmica, supportata da un groove aggressivo, personalizzato di volta in volta dagli ospiti, ho pensato potesse essere la chiave giusta per "Heavy Sharing" . Quindi, una volta catturate le caratteristiche di ogni ospite ho cercato di realizzare per ognuno di loro una base ritmica, dove potevano poi costruire un testo ed una melodia. Elemento importante che voglio sottolineare è che nessuno conosceva il proprio brano. Questo ha dato il valore aggiunto a tutto il lavoro.
LDP: Sei una figura di riferimento del metal italiano, memoria storica ma sempre pronto a rimetterti in gioco: questo progetto ne è la riprova. Ne approfitto per chiederti che cosa pensi della scena metal italiana di oggi e quali sostanziali differenze trovi con quella che ti accolse agli inizi della tua carriera.
EN: La scena metal italiana è sempre in divenire; ne sono la riprova i tanti Festivals che si propongono e le tante nuove proposte. Noto anche con piacere che c'è un ritorno di molte band del primo periodo, quindi una nuova linfa che si rigenera. La sostanziale differenza tra il periodo degli anni 80/90 e oggi è sostanzialmente Internet. Questo mezzo ha stravolto la comunicazione e le opportunità. Tutto è visibile in tempo reale a chiunque, anche se alle volte con la stessa velocità scompari.
LDP: Domanda che non posso non farti, ci racconti dei tuoi inizi e della scelta del basso? Quali bassisti ti hanno maggiormente influenzato e quali, nella scena attuale, ritieni i migliori in ambito metal?
EN: Nasco come bassista, anche se da ragazzino ho iniziato studiando contrabbasso. Da ragazzino, la scelta dello strumento mi è stata stimolata dall' ascolto delle prove del gruppo beat di mio cugino, i Gens (gruppo famoso in Italia negli anni settanta con il brano "In fondo al viale"). Il loro bassista aveva un Vox con un suono molto intenso e penetrante e lì ho razionalizzato che quello era il mio strumento. Dopo, crescendo, i bassisti che maggiormente mi hanno influenzato sono stati fondamentalmente il grande Mel Schacher dei Grand Funk, che aveva un suono ruvido e innovativo, come pure il fantasioso John Entwistle degli Who, ma senza dimenticare il funambolico Phil Lynott dei Thin Lizzy. Della scena attuale metal mi piace ricordare Cliff Burton dei Metallica, Steve Harris, uno dei migliori bassisti ritmici, e per affetto oltre che per stima Lemmy dei Mothoread.
LDP: Vorrei anche una tua opinione sulla situazione del mercato discografico metal in Italia e, per esteso, in genere. Innanzitutto, cosa pensi della “liquidità” della musica, delle “strategie di download”? Pensi che il supporto fisico possa essere veramente in via d’estinzione? Credi che l’heavy metal possa contare ancora su uno zoccolo duro che possa preferire l’album in vinile ed in cd? Vedi una guerra possibile tra la realtà del download ed il diritto d’autore?
EN: Le nuove tecnologie sicuramente hanno modificato il mercato del supporto fisico Cd e Vinile, ma di contro hanno favorito una maggiore diffusione e anche un mercato nuovo, dalle regole differenti. Il mondo è cambiato e quindi bisogna adeguarsi a queste nuove regole. Il supporto fisico, soprattutto il vinile, credo non andrà mai in estinzione, non fosse altro per il mercato del collezionismo e ne noto anche un ritorno. L' Heavy Metal sicuramente si presta molto al vinile, questo è anche dimostrato da alcune recenti produzioni. Per i diritti d'autore c'è un po' di confusione nelle procedure, specialmente nella Siae, comunque spero che in un prossimo futuro non si faccia una guerra, ma un accordo chiaro tra i download e i diritti d'autore.
LDP: In “Heavy sharing” l’uso del basso è molto differente dalle scelte tipiche e dall’estetica generale dei dischi solisti di bassisti dell’area hard. In genere, da un disco solista di bassista metal ci si aspetta un’esuberanza strumentale che può patire in termini di creatività. Le tue linee, solide e sorrettive, sono molto potenti e concedono un minimo spazio al virtuosismo, il pezzo in cui giochi di più su questo è “Ai confini del mondo”, sostenuto da un’efficace base elettronica. Ti sei soffermato sul suono e sulla struttura dei pezzi, scelta che ci piace, invece di indugiare magari in un hard rock di maniera con assoli di basso, come appunto accade spesso. Mi dici come consideri debba essere, per così dire, il basso nell’heavy metal? C’è secondo te una contrapposizione tra bassisti di scuola Geezer Butler e gli innovatori di fretless a sei corde nel death, nel black, etc? E c’è una REALE contrapposizione, volendo fare solo due nomi, tra uno come Ian Hill e Steve DiGiorgio?
EN: È vero, in Heavy Sharing l'uso del mio basso non è basato su virtuosismi ma piuttosto su costruzioni ritmiche che poi credo sia la mia caratteristica. Ho cercato di dare al basso un ruolo portante, centrale ed anche essenziale a supporto delle voci. Il basso nell' Heavy Metal deve avere ed ha un ruolo fondamentale di supporto con la batteria alle dinamiche ritmiche del brano. Costituiscono la base solida d'impatto sonoro e il groove del brano, anche perché senza questo le chitarre, che sono l'emblema e la caratteristica del metal, non avrebbero modo di uscire dal brano e dare la sferzata tipica al sound. La mia scelta di andare fuori dagli schemi classici del Metal è stata sicuramente coraggiosa e comunque vuole essere anche un modesto esempio di come una solida base ritmica può, nella sua essenzialità, dare lo stesso groove ed essere in equivalenza con i canoni propri del Metal. Nel brano "Ai confini del mondo" mi sono messo alla prova e in discussione su un pezzo di elettronica. Personalmente lo trovo giusto anche perché la musica ha bisogno di sperimentazioni. Oggi il basso ha avuto le sue evoluzioni, certo dalle solite 4 corde oggi arriviamo ad usarne fino a 6. Personalmente ho avuto poca esperienza con bassi a 5 e 6 corde. Sì, è vero, danno una maggiore disponibilità di sonorità e spesso sono molto utili, ma attenzione alle mode. Personalmente sono un bassista da 4 corde classiche, ruvide "Rotosound scala 45-105"... Steve DiGiorgio (Testament, Death) è un bassista dall'impatto sonoro immediato, deciso, con un suono aggressivo e moderno, e lo preferisco oggi all'ascolto, senza togliere nulla al grande Ian Hill (Judas Priest), il quale ha fatto scuola per quanto riguarda il come usare il basso nel tessere una ritmica di base, senza fronzoli ma essenziale nel creare le strutture giuste per le chitarre. Se c'è fra loro una contrapposizione? Credo che siano complementari e comunque due grandi a cui va il mio assoluto rispetto.
LDP: Utenza e pubblico italiano. Il paese, musicalmente parlando, è funestato da oscene trasmissioni spesate e direzionate da major sempre più orientate verso la banalità di un pop urlato senza nessun’anima. I più catastrofisti dicono che l’Italia non è mai stato un paese davvero rock. Tu cosa risponderesti su questo? Il rock, ed in particolare il rock duro, è stato e sarà sempre di nicchia in questo paese?
EN: È una vecchia storia! Il Rock in Italia oggi è una realtà, a differenza dagli anni 60/70 dove eravamo in una fase di "apprendimento" anche se nel Progressive eravamo più in linea. Comunque, il nostro Paese ha radici diverse dagli altri Paesi Europei e d'oltre oceano. Non dobbiamo dimenticare la musica lirica e la musica napoletana degli anni '30 e del dopoguerra che hanno segnato nel bene e nel male il nostro background culturale. Una cosa è certa: la melodia della musica italiana è riconoscibile ancora oggi e anche il Metal Made in Italy lo porta nel suo dna e sicuramente questo è un valore aggiunto. Cosa diversa è il mercato discografico che ha regole legate al marketing più bieco e più di massa che non presta troppa attenzione alle proposte più alternative. Questo ci sta in una società consumistica, ma noi che viviamo anche di tanta passione, possiamo orientare un po' il mercato del Metal, soprattutto con la nostra partecipazione, perché solo con il supporto sempre più presente riusciamo a innescare sempre maggiori interessi.
LDP: “Heavy Sharing” (titolo molto significativo) esce per la Buil2Kill. Che puoi dirci di questa label? Tu in passato, con Unreal Terror, The Black, Akron hai lavorato con la storica Black Widow. Pensi che label specializzate in Italia debbano affrontare una sorta di “prova di resistenza” per restare coerenti a ciò che intendono proporre?
EN: Nel titolo c'è l'essenza della mission del progetto "insieme in condivisione in nome del metal”. Aver incontrato i ragazzi della Buil2Kill /Nadir Music è stato molto costruttivo. Loro sono molto professionali e soprattutto si respira una bella aria e si riesce ad avere condivisioni senza ombre alcune. Con la storica Black Widow c'è sempre un discorso aperto per via dei The Black. In Italia viviamo di prove di resistenza in diversi campi e quindi anche le label devono fare i conti con tutto questo, ma loro sono vincenti, perché oltre all'abnegazione e al lavoro, senza trascurare il marketing, hanno come valore aggiunto la passione e il credo.
LDP: Nel tuo lavoro solista, come dicevamo, ci sono dieci singer per dieci pezzi diversi. Hai in programma un tour e pensi di coinvolgere qualcuno di questi ospiti illustri anche nella tournée?
EN: Ci sto lavorando, non è semplice ma qualche data si farà. Tutto dipende dalla disponibilità degli ospiti. Comunque ci sarà un Tour Clinic dove presenterò il cd suonando su una base.
LDP: Ora ti chiedo, e sono molto curioso di questo, la tua strumentazione attuale. Collezioni anche strumenti?
EN: La mia strumentazione attuale da tour comprende un Fender Precision del 74, un Kramer del 83 è una Esp più fresca del 2001. Corde rigorosamente Rotosound scala 45-105. Uso anche una pedaliera della Pearl con vari effetti e sono molto affezionato ad un vecchio Overdrive per basso PD7 della Ibanez che ho usato in qualche brano di "Heavy Sharing". In studio e a casa ho anche un basso Ibanez sempre a 4 corde per provare nuovi riff oltre ad un basso acustico Fender. Mi accompagna da ragazzino il mio vecchio contrabbasso con cui ho iniziato. Una chitarra Yamaha e una Ovation, entrambe acustiche, fanno da accompagnamento. Mi dispiace di non avere con me i miei primi strumenti e soprattutto il mio primo basso elettrico, che i miei mi comprarono in terza media, un meraviglioso Ariston modello Hofner (forma di violino): è proprio con quello che ho iniziato le prime note.
LDP: Non ti lascio sfuggire una breve e libera domanda alla Nick Hornby: senza preclusioni di genere e numero, mi dici i tuoi dischi fondamentali, quelli cui non potresti mai e poi mai rinunciare?
EN: Mi va di citarti album che sono stati molto importanti per la mia crescita: “Are you Experienced"di Jimi Hendrix (genialità ed evoluzione), "Paranoid" dei Black Sabbath (nascita del doom), "Grand Funk" dei Grand Funk (Railroad) (affascinanti nella loro essenzialità e un grande suono di basso) e poi “In-A-Gadda-Da-Vida degli Iron Butterfly (metal e psichedelia).
LDP: Ultima domanda, prima di lasciare un saluto ai tuoi numerosi fan. Domanda che non ho mai fatto a nessun altro musicista e che inauguro qui con te: vuoi consigliare, oltre al tuo disco notevole che consiglio io in prima persona, cinque dischi che ogni buon metaller appassionato di basso elettrico dovrebbe ascoltare?
EN: Non è semplice indicare dei suggerimenti, comunque i primi cinque dischi che mi sento di proporre in maniera istintiva sono "Kill 'em All" dei Metallica con un grande Cliff Burton al basso, "Into Glory Ride" dei Manowar con un poderoso Joey De Maio, "The Gathering" dei Testament con l'innovatore Steve DiGiorgio e il suo fretless bass, "Powerslave" con il poliedrico e grande ritmico Steve Harris, e non posso non citare "Ace of Spades" dei Motorhead con il granitico e ferruginoso basso di Lemmy Kilmister.
ENIO NICOLINI MAIN DISCOGRAPHY
Unreal Terror
HEAVY AND DANGEROUS 1985
HARD INCURSION 1986
Song "Pulling the switch" su ROCK MEETS METAL (Compilation) 1987
The Black
ABBATIA SCL CLEMENTIS 1993
REFUGIUM PECCATORUM 1995
APOCALYPSIS 1996
Song "Suspiria et..." su E TU VIVRAI NEL TERRORE (Compilation) 1997
GOLGOTHA 2000
PECCATIS NOSTRIS/CAPISTRANI PUGNATOR 2004
GORGONI 2010
Akron
"Il mulino delle donne di pietra" su E TU VIVRAI NEL TERRORE (Compilation) 1997
LA SIGNORA DEL BUIO 2000
IL TEMPIO DI FERRO 2002
Sloe Gin
A MATTER OF TIME 2013
Secret Tales
L'ANTICO REGNO 2014
Enio Nicolini
HEAVY SHARING 2014
Libri
ROCK N FOLLIA 1997 Edizioni Tracce (Illustrazioni by MARIO DI DONATO)
©Luca De Pasquale/Manuela Avino 2015
Per chi, come il sottoscritto, ha amato alla follia il Lucio Dalla del periodo cosiddetto “centrale” (1976-1983), Marco Nanni è sinonimo di bassista. È infatti lui l'uomo che ha curato e suonato i groove eleganti, intensi ed intelligenti di quei grandi dischi di Lucio. È lui il primo bassista e membro fondatore degli Stadio, che hanno suonato rock e pop in quegli anni di Bologna capitale e di un'Italia ancora non schiava di grotteschi talent e musicalmente svilita da ragazzi mandati allo sbaraglio con pezzi plastificati. All'epoca si suonava sul serio. Gli Stadio facevano sul serio. La tecnica strumentale nei dischi di Lucio Dalla, nel settennio magico evocato sopra, era tangibile ma non invadente. Marco Nanni era un personaggio che mi affascinava moltissimo. Mi sembrava parlasse poco, non era plateale, era concreto e di presenza, sostanziale, insostituibile. Probabilmente devo la mia prima cotta al suo basso quasi sottomarino in “Sole domani”, dal primo omonimo album degli Stadio. A Sanremo 1984 gli Stadio si presentarono con “Allo stadio” ed io ero tutto agitato, dodicenne tifoso della band e di Marco Nanni in particolare.
Il brano, con mia somma sorpresa, arrivò ultimo ma era una bomba, e il basso di Marco aveva rubato tutta la mia attenzione, deciso e puntuale, anche durante il bellissimo assolo di Ricky Portera. Ogni tanto vado a risentire quel pezzo e seguo ancora il basso come la prima volta.
Lasciati gli Stadio, Marco è entrato nei mitologici Skiantos: l'ho seguito idealmente anche in quell'avventura, naturalmente. “Saluti da Cortina” è sublime.
Marco Nanni, in buona sostanza, ha incarnato la quintessenza del bassista ideale in quegli anni che anche per me sono già nostalgia, sensatissima e disincantata nostalgia, amore della musica vera. Musicista solidissimo e serio, Marco ha certamente scritto, con Lucio, gli Stadio, gli Skiantos ma anche con Antonello Venditti, splendide pagine della musica italiana.
Da molti anni pensavo di contattarlo per avere il suo punto di vista su quegli anni, quei dischi, sul suo background e suoi sogni, sulle sue evoluzioni. Oggi, con un certo orgoglio e una certa emozione giustificata da tanta fedeltà, vi sottopongo il nostro incontro, lieto di aver finalmente conosciuto uno dei miei punti di riferimento, un istigatore di groove mai dimenticato.
E dalle sue risposte modeste ed ironiche, razionali e sarcastiche, attraversate da una sincerità rara, ho l'ulteriore conferma che non avevo sbagliato da adolescente: Marco Nanni è un gran tipo. Ora non mi resta che lasciarvi alla nostra intervista, prendere dalla mensola l'omonimo di Lucio Dalla del 1980, uno degli album che ho adorato di più in assoluto, e con un solo gesto ricreare la magia del tutto, con in primo piano, di giustezza e come sempre, il basso di Marco Nanni.
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LDP: Marco, sei a tutti gli effetti un'istituzione del basso rock in Italia. La tua lunga militanza negli Stadio e al fianco di Lucio Dalla, l'esperienza con gli Skiantos... è difficile dunque chiederti come è iniziato tutto, ma vuoi provare a raccontarci i tuoi inizi e la tua grande avventura musicale?
MN: Da piccolo provarono con la fisarmonica, ma scappavo in cortile. A 13 anni ho familiarizzato con una chitarra. Cantine, amici e grande piacere per l'ascolto di tutti i tipi di musica mi hanno stimolato a trovare un mio metodo. Lo chiamavo Metodo Nanni. Mi permetteva di suonare insieme a radio, dischi o altri musicisti. Un giorno, un gruppo doveva sostituire il bassista e provai. Erano contenti, e allora cominciai con i Gulp. Sale da ballo, case del popolo. Repertorio anni ‘60. Quasi niente in italiano. Bellissimo. In 5 o 6 anni ho fatto esperienza, ho cambiato gruppo, sono andato con Jimmy Villotti e Fio Zanotti. Mentre si lavorava con Augusto Martelli sono tornato con i Gulp che nel ‘73 accompagnavano Mia Martini. Nel ‘74 sono andato 5 mesi in Svizzera, Algeria e Norvegia. Ma era troppo faticoso. Al ritorno chiesi ad un impresario se qualche cantante famoso cercasse il bassista. Gli si accese una luce e disse: Lucio Dalla. Era il massimo che potessi sperare, avevo tutti i suoi dischi. In seguito non li ho dovuti comprare più...
LDP: Sei stato uno dei protagonisti della golden age musicale di Bologna, che in quegli anni è stata praticamente una capitale della musica. Che ricordi hai di quel periodo, di quel fermento? Nell'Italia sbiadita di oggi uno scenario del genere sembra impensabile ed irripetibile, sei d'accordo?
MN: Non ricordo un granché. Prima c'erano tante orchestre da ballo con i racconti dei "vecchi". Aneddoti del dopogurra che sono stati importanti anche per la creatività sbocciata con gli autori consacrati e il contemporaneo lato trasgressivo, punk, demenziale. Standoci in mezzo avevo una visione miope, entravo in quel mondo e credevo che fosse così ovunque. In effetti anche a Milano, Roma. Genova, Napoli c'era fermento. Poi a Firenze. Oggi? Ci sono moltissimi jazzisti, bluesmen, strumentisti bravissimi un po' tutti uguali. Poi c'è il mondo dei talent show. Non si vendono più i dischi ma ci sono spettacoli costosissimi, poi altri dove si esibisce chi porta gli amici. Per metterla sul personale, non mi piace il suono dei live né dal palco né dalla platea. Troppi aggeggi che controllano il suono, limiter, compressori nei monitor... Soffro. È anche per questo che nel 2003 ho chiuso.
LDP: Ho sempre pensato che esistesse un vero e proprio “Marco Nanni sound”.
Il tuo suono era rock e al tempo stesso mobile e dinamico. Ci sono dei pezzi che ho sempre trovato favolosi da un punto di vista bassistico... “Sole domani”, “Siamo dei”, “Chedi chi erano i Beatles”... e certamente tutti i dischi di Lucio in cui hai suonato. Come hai maturato il tuo sound così ricco? Quali sono stati i bassisti che ti hanno maggiormente influenzato?
MN: Il mio suono è un compromesso. Non sottoscrivo quasi niente di quello che mi hanno registrato e mixato. Mi hanno chiesto di usare il plettro e non mi è mai piaciuto.. Dal vivo è stata una continua lotta per la sopravvivenza, il problema è stato sempre: riuscire a sentirmi. Quindi ho sempre cercato un suono utile, non il suono che avrei voluto. Il mio suono nel primo LP degli Stadio, è quello che si avvicina di più al mio desiderio. l miei bassisti di riferimento? Willie Weeks, Arthur Barrow. Poi tutti i soliti.
LDP: Dopo la tua fuoriuscita dagli Stadio, sei entrato negli Skiantos. Mi racconti un po' di questa ideale “seconda parte” della tua carriera?
MN: Fra i disgraziati che incontravo di notte a Bologna ai tempi di Com'è Profondo il Mare, c'era Fabio Testoni (Dandy Bestia). Si promuoveva scrivendo Skiantos nelle cabine telefoniche e mi faceva sentire la roba ridicola che registravano. Alla loro produzione partecipava anche Carlo Cialdo Capelli e mi fecero registrare Carabignere blues. Lì ho conosciuto il resto del gruppo. Fabio, in un loro momento grigio affiancò Ricky Portera con Lucio Dalla. Nell'89 ho smesso con Dalla e gli Stadio e dopo qualche mese se ne andò il bassista deglii Skiantos. Lavoravano pochissimo, era perfetto per me... Sono rimasto 14 anni.
LDP: Pensando a tutti i musicisti che hai incontrato e con i quali hai collaborato, a chi sei rimasto legato ancora oggi?
MN: Vedo Jimmy Villotti, Malavasi, Rudy, Serse Mai, ma sono più legato al batterista che suonava con me nel ‘72, Dino Palella. Giovanni Pezzoli è come un parente e anche Portera e Fabio Liberatori, come Granito e Dandy degli Skiantos, ma li vedo difficilmente. Incontro sempre Ugo Rapezzi e Massimo Cappa su Facebook.
LDP: Posto che sei anche un multistrumentista - penso a tutti i tuoi interventi al sax - mi incuriosisce molto chiederti di quali giri di basso vai più fiero e quali sono gli album che consideri i più importanti della tua carriera... ma anche quali altri progetti nei quali sei stato coinvolto ricordi con maggior piacere.
MN: Vado fiero di tutto il primo disco degli Stadio, del Q-disc e 1983 di Lucio, ma il premio me lo do per Saluti Da Cortina. Ricordo con molto piacere il periodo allo Stone Castle con Antonello Venditti. Poi ho saputo che con Sotto La Pioggia, Paolo Rossi e Cabrini si caricavano prima delle partite del Mondiale ‘82... Mi fa ridere pensare che forse un po' ho contribuito anch'io.
LDP: Sempre restando in tema bassistico, mi dici della tua strumentazione?
MN: Il mio basso è un 5 corde artigianale fatto su disegno mio da Stanzani. Solid body di ebano e acero dei balcani. Misure Fender. Meccaniche Laurus a destra tipo Steinberger, un solo pick up Fender Jazz con inseriti 3 magneti. Studiai la posizione lungo le corde evitando gli armonici. Aveva inserito un radiojack che ho usato dall'87 al 2000. .Non c'è né volume né tono. È avvolgente e bilanciato. Prima usavo lo Steinberger 4 corde, in precedenza Aria 4 corde, MusicMan fretless e un artigianale romano di Piero Terracina tipo Precision. In passato Jazz, prima ancora Jazz con la paletta accorciata. Lo sta usando mio figlio. All'inizio avevo un Gibson col manico corto, ma non suonava.. Ho avuto tanti amplificatori. Finito l'Ampeq combo e venduto il Marshall, ho preso un Gallien Kruger 600, soprattutto per Edoardo. Ho usato negli anni ‘80 un boss azzurro. Suono ogni tanto, un contrabbasso 3/4 che comprai da Roberto Costa. Ho sempre usato un d.i. box, mandando un segnale al mixer e uno per il mio ampli da cambiare a mio piacimento.
LDP: Marco Nanni nel 2015. Quali sono i tuoi progetti per l'immediato futuro? Di cosa ti stai occupando al momento?
MN: Qualche acciacco mio e di mia moglie da tenere controllato e curato, e da pensionati teniamo sotto controllo anche i "costi d'esercizio", compresi eventuali aiutini ai figli. Da 30 anni colleziono macchinine e da 15 compro e vendo Hot Wheels su eBay. Ho un "mio" bar di giorno e so dove trovare gente di notte. Suono spesso la chitarra. Poi fin troppo Facebook.
LDP: E a proposito di musica italiana di qualità, c'è qualcosa che ti piace in giro? Qualche realtà promettente?
MN: Non so, pensando a cose nuove mi accorgo che hanno 10, 20 anni.
Mi viene più spontanea la classifica di chi NON mi piace. Di quello che sentono i miei figli penso volentieri al Teatro degli Orrori, I Calibro 35 e altri che non ricordo.
Io sono fermo a Bersani e Caparezza. Mengoni è generoso e non mi sta antipatico. Giorgia e gli Elii per la grande tecnica.
LDP: Senza chiederti le solite classifiche moleste da social network, mi dici quali sono i tuoi dischi indispensabili, spaziando nei generi?
MN: Zappa, Piazzolla, Joao Gilberto, Beach Boys e Randy Newman.
LDP: Hai mai pensato alla possibilità di incidere un disco a tuo nome? Hai del materiale, in questo senso?
MN: Penso di fare un disco mio, come penso a quello che farei se fossi Obama...
Un po' di materiale ce l'avrei, ma è solo qualche idea lasciata richiudere "come la scia di un'elica". Non ne sento l'urgenza.
Luca De Pasquale 2015
Non scopro l’America se dico che la musica di qualità, soprattutto in Italia, segue (o meglio, è costretta a seguire) percorsi tortuosi, costellati di difficoltà distributive e promozionali che ormai sono quasi il nostro marchio di fabbrica. Sembra che più hai talento, più la devi pagare in qualche modo. Sembra forse forzato e parossistico, ma il potenziale di alcune band è così lampante che viene naturale chiedersi perché, da certi punti di vista, ci sia un velo su questi artisti dotati. I Kyrie, nati a Milano nel 1993, sono una band che sarebbe opportuno scoprire, riscoprire e consolidare. Hanno al loro attivo sei album, tutti innervati da una cifra stilistica riconoscibile e molto originale. Un misto di cupa elettricità, sensibilità pop, derive à la Cure (soprattutto agli esordi, il tutto con un respiro che potremmo definire mitteluropeo ma nel linguaggio universale e funzionale del rock. Personalmente, li ho incontrati musicalmente nel 2004, con il loro elegante “Le meccaniche del quinto”, un lavoro coraggioso e molto suggestivo, denso. All’epoca lavoravo in un negozio di dischi import, e ricordo quanto fosse garantita la vendita del disco proponendoli o diffondendoli on air. Dopo un silenzio di otto anni, i Kyrie sono tornati nel 2012 con il sorprendente “Lo splendore del mattino che viene”, un album estremamente vario, che offre anche bei momenti acustici ed in assoluto, rispetto alla prima produzione più nervosa e dark, un’atmosfera ancora più raffinata e più pop, nell’accezione positiva del termine. Possiamo dunque dire che i Kyrie sono uno dei migliori segreti della musica italiana attuale, dove per segreto si può intendere un’entità artistica che ha ancora molto da dire. Vi invito a procurarvi i loro lavori, che certamente non vi lasceranno indifferenti; e sono certo colpirà la differenza sostanziale, e cioè il taglio internazionale della proposta, tra i Kyrie e le tante band italiane –pur in gamba, magari- che continuano a vagare in quel limbo poco promettente che è la rielaborazione di modelli esteri o di successo.
Quella che segue è la chiacchierata/intervista che ho avuto con Piero Sciortino (voce, chitarra, testi, musiche) e Dario Sangiorgi (basso), con tanto di “incursione” di Roberto Vidè, il tastierista.
....................................
LDP: Voglio iniziare quest'intervista con un doveroso riconoscimento: reputo i Kyrie una band davvero interessante, intrigante e anche diversa -in accezione positiva- da altri gruppi italiani che propongono un discorso simile. Partendo proprio da questo, vi chiedo una sorta di bilancio, considerato che vi siete formati nel 1993; dopo vent'anni che siete in gioco potete dichiararvi soddisfatti di quanto seminato e raccolto?
Pps: Innanzitutto grazie. Soddisfatto? Se rispondessi di sì direi una stupidaggine. E altrettanto se dicessi di no. Mi spiego: quando si parte con il desiderio di fare musica, comporre, scrivere, suonare in un gruppo, la passione spesso è bruciante e ciò che normalmente si cerca è di rendere la musica sempre più presente nelle ore, nei giorni ecc. Quando questo non accade è chiaro che dispiaccia. Ognuno di noi ha il suo lavoro e la musica, pur se presente o molto presente, non è certo ciò che ci sostenta e quindi resta nella pratica qualcosa di periferico anche se, in realtà, parlo per me naturalmente, resta del tutto centrale e fondamentale nella mia vita. Il fatto che non sia un’occupazione la fa rimanere una sorta di isola incontaminata in cui è bello trascorrere del tempo. Un’ isola ancora oggi, come trent’anni fa, piena di sorprese, di scoperte e di cose che stupiscono. Inoltre sono felice che nel nostro piccolissimo, abbiamo avuto tante parole di stima sia per i nostri lavori in studio sia per i concerti.
Dsg: Fa molto piacere quando a distanza di anni, dal nostro ultimo concerto, qualcuno ci scrive chiedendoci informazioni sui nostri nuovi progetti in studio o live, con la speranza di poterci rivedere e risentire. Oppure vedere su Facebook che qualcuno pubblica una nostra canzone. Questo significa che qualcosa abbiamo lasciato.
LDP: Nei vostri dischi convivono armoniosamente rock, new wave, pop raffinato, dark “illuminato” e molto altro. Inoltre, avete coraggiosamente scelto di esprimervi in italiano, aggiungendo al tutto una naturale propensione a testi letterari e pieni di riferimenti artistici non banali. Sappiamo che l'Italia è un paese ostico, in quanto a ricezione di proposte che rifuggano dal melodico obbligatorio e da certo semplicismo rock: ritenete che questa vocazione “alta” abbia pagato quanto poteva?
Pps: Sia per quanto riguarda la musica, sia per i testi mi sono sempre sentito libero di fare esattamente ciò che sentivo. In un gruppo, poi, ti confronti, ascolti gli altri, percepisci se la direzione di una canzone, ad esempio, va dove avevi deciso andasse o sperato andasse oppure no. È capitato in passato di rompere un accordo discografico perché il responsabile dell’etichetta aveva mixato, manomettendo il pezzo (che tra l’altro era una cover di Battisti per il mensile Mucchio Selvaggio) su cui avevamo lavorato. E il tutto senza assolutamente avvertirci. Lo abbiamo scoperto quando il giornale era oramai nelle edicole e abbiamo ascoltato il lavoro. Dal mio punto di vista è una forma di violenza e un’azione del tutto irrispettosa. Tornando alla tua domanda, non c’è da parte mia, o nostra, nessuna vocazione alta. C’è il fatto di sentire in un certo modo e tentare di fissare questo sentire in una canzone. Quando scrivo cerco semplicemente di raggiungere un risultato che mi piaccia, in cui mi possa ritrovare, che dia un senso di compiuto e di bello. Cosa che peraltro dura poco. Trovo sempre difetti in quello che ho fatto. Mi ci vuole tempo affinché torni a guardare o ad ascoltare una nostra canzone con la giusta distanza. All’inizio le canzoni sono come dei figli, le ami, le educhi, ci lavori su, cerchi di non fargli fare ciò che vogliono loro. Poi appena le registri le abbandoni come fossero diventate compagne noiose e rompiscatole. Nel tempo, non sempre accade ma ogni tanto sì, ricompaiono come vecchie foto e le riguardi con benevolenza. In certi casi non ne senti più i difetti ma solo ciò che c’è di buono.
LDP: Dal vostro esordio, “Da lontano” del 1995, all'ultimo “Lo splendore del mattino che viene” del 2012, la vostra evoluzione è tangibile, secondo un percorso che appare coerente e naturale. La seducente cupezza dei primi lavori non è scomparsa, ma nell'ultimo disco c'è un suono più ricco e zeppo di rimandi. Mi raccontate del vostro cammino creativo e di come si è modificato negli anni?
Pps: È difficile rispondere. Una cosa è certa, sia nella musica sia soprattutto nelle parole si avverte il fatto che ciò che prima ti piaceva, ti seduceva, oggi ti è abbastanza insopportabile. Questo mi accade soprattutto ascoltando i miei vecchi testi. Immagini a volte troppo angosciate o angoscianti che sono lontane mille miglia da ciò che oggi scriverei. A volte mi chiedo chi le abbia scritte. Oggi certamente non sono più uguale a colui che le scrisse anni e anni fa. Altre cose invece mi piacciono ancora e riascoltandole penso che non avrei potuto fare di meglio. Ci sono canzoni come “Lipsia 1933” o “Il dominio delle frequenze” o “Aggredendo i salici” o “Caffè viennese” che reputo ancora oggi davvero buone. Da parte mia la ricerca di immagini, sonorità un po’ più luminose rispetto al passato riflette certamente il modo diverso tramite cui vedo le cose e me stesso.
LDP: Una delle qualità dei Kyrie, che emerge al primo ascolto, è la spontaneità dell'approccio, pur considerando la complessità lirico/musicale. Niente di studiato a tavolino, nel senso di strizzare l'occhio ad un facile appeal commerciale. Eppure, il taglio è internazionale: pezzi come “Altrove ed oltre”, “I 7 rintocchi”, “Ritiro estivo”, “I quadri di Goya” (favoloso), “L'uomo senza nome” (con un basso espressionista)... non è un risultato da poco mescolare un sound vicino ai Cure, ma non derivativo, con strutture armoniche europee. Qual è stato il segreto di quest'alchimia?
Pps: Non so. Non c’è davvero nessun segreto. C’è solo l’aver seguito sempre e solo ciò che mi muoveva, che ci muoveva. Tentare di fare cose di cui saremmo andati orgogliosi, almeno in buona parte, facendole ascoltare tramite disco o tramite i live. Tutto qui. Per il resto non so nemmeno come si scriva a tavolino, penso sia interessante saperlo fare, saper progettare una canzone con lo scopo che abbia successo. Io non lo so fare. Non lo sappiamo fare. E può essere stato un limite, certamente.
LDP: Non soffermandoci troppo su un disco immortale ed irripetibile come Disintegration dei Cure, che sono certo amate molto (penso a L'aeronauta in particolare), mi raccontate dei vostri principali debiti musicali? Avete gusti differenti all'interno della band?
Pps: Abbiamo certamente gusti diversi ma, in alcuni casi, similissimi. Io ascolto molta musica da sempre anche se non per forza mi sento in obbligo di andare alla ricerca delle nuove cose, tendenze ecc. amo la musica classica da molti anni ormai. Bach, Mozart, Brahms, Malher, Arvo Part e Gorecki su tutti. Nel pop o nel rock sopra tutti ci sono i Beatles che restano per me un miracolo di talento insuperato e secondo me insuperabile. Poi a cascata decine di altri nomi che amo tantissimo. I Cure, i Led Zeppelin (mentre rispondo alle tue domande sto ascoltando il loro Phisical Graffiti), i Pink Floyd, Battiato, l’ultimo De Andrè, Battisti. Oggi il mio gruppo preferito sono i Mogwai e molti gruppi di così detto post rock mi piacciono molto come Explosion in the sky, God is an astronaut. Amo infinitamente i Cranes, gli Slowdive ed i Joy division e mi fermo qui altrimenti me ne vengono in mente altre decine.
Rv: Per me Joy division, Pink Floyd. Come scena rock italiana i Marlene Kuntz e i primi Diaframma.
Dsg: Confermando i gusti dei miei soci, ultimamente ascolto molto gli Archive.
LDP: Lo stato della discografia italiana -e probabilmente del quoziente intellettivo dei residui discografici italiani- è con tutta probabilità ai minimi storici. Al riciclarsi di nomi decotti e pompati si è aggiunto il deforme carrozzone dei talent. I negozi di dischi stanno chiudendo tutti, gli specializzati sono come i panda e hanno le ore contate. C'è modo di reagire a questo triste ed inesorabile declino? Perché la morte della musica fisica, del coraggio di investire in prodotti validi e di sostanza, sono aspetti che vengono definiti “evoluzione del sistema”. Non si potrebbe parlare piuttosto di involuzione totale?
Pps: I talent non li seguo. Ho seguito la prima edizione di X-Factor e basta. Ogni tanto si sente qualche nome uscito di lì. Qualcuno ha vero successo qualcuno invece entra in una specie di tritacarne che più o meno velocemente lo distrugge. Molti ragazzi vengono illusi, spremuti, usati (anche in buona fede) per un tempo e poi spente le luci non rimane nulla di nulla. Non è un’evoluzione né un’involuzione. È semplicemente ciò che è. Si vendono pochi dischi, si cerca di creare il caso dell’anno, che stupisca, che sappia far breccia e poi si riparte da capo l’anno dopo. C’è molto da fare in Italia considerando che siamo amati all’estero per Bocelli o peggio ancora da “ Il volo” o da Allevi.
Dsg: Le case discografiche ormai investono su pochi progetti e su quelli puntano tutto. Per gli altri c’è ormai poco spazio e devono quindi arrangiarsi da soli. Per fortuna adesso ci sono i social web, i digital store con i quali un gruppo può cominciare a farsi vedere e sentire. Rimpiango il fatto che nel 2003 quando uscì “Le meccaniche del quinto” non ci fossero ancora questi mezzi, perché ci avrebbero aiutato sicuramente a crescere.
LDP: Dopo venti anni e sei lavori, quali sono i piani dei Kyrie per il prossimo futuro? Pensate che sia possibile fare in modo che alcuni dei vostri dischi possano essere ristampati? Ho ancora persone che mi chiamano chiedendo se riesco a procurare altre copie de “Le meccaniche del quinto”, che all'epoca diffusi massicciamente nel negozio import dove lavoravo...
Pps: Per chi fosse interessato a “Le meccaniche del quinto” il nostro primo disco ufficiale del 2004, distribuito da Audioglobe, noi ne abbiamo ancora qualche decina di copie. Dei primi 4 demo ( i primi 3, pensa, erano nati in principio come musicassette) ogni tanto ne stampavamo qualche copia per i concerti. Ne abbiamo a malapena copie personali. L’ultimo lavoro “Lo splendore del mattino che viene” si può acquistare su iTunes, non è mai stato stampato fisicamente. Resta, almeno per ora, in formato virtuale. A volte penso all’idea di un cofanetto che racchiuda tutti e sei i lavori. Così, anche solo per noi, per regalarcelo a Natale. Attualmente stiamo provando per nuovi concerti e credo entro il 2016 uscirà un nostro nuovo lavoro.
Dsg: Sì, l’idea di una ristampa di tutti gli album la trovo anch’io una cosa che si debba fare. Dovremo trovare solo il modo più giusto e non troppo oneroso.
LDP: Tornando alla scena rock italiana, che idea ne avete? Verso quali colleghi provate stima? Vi faccio questa domanda, ben sapendo che per i suoni che proponete il vostro background dev'essere per forza a tutto tondo e non certo limitato alla scena nostrana. Ma mi incuriosisce cosa vi piace (e cosa vi è piaciuto) in Italia.
Pps: In Italia come dicevo Battiato su tutti ma anche Battisti, i CSI, qualcosa dei Marlene o degli Afterhours, Benvegnù. Mi piace Carmen Consoli e poi, che so, qualcosa di Erica Mu.
Dsg: Io rimango sui classici, come De Andrè, Battiato, Battisti.
LDP: Una domanda specifica per il bassista Dario Sangiorgi... Dario, questo blog si occupa pariteticamente di scrittura, rock e basso elettrico, quindi non posso esimermi dal farti una domanda più approfondita sul tuo stile e sulle tue influenze. Il basso nei Kyrie ha un ruolo preponderante, molto cupo e solido ma al contempo scattante, pronto a sorreggere la melodia e la voce di Piero. Quali bassisti ti hanno maggiormente influenzato? Qual è la tua strumentazione attuale?
Dsg: Mi piace un suono definito del basso, per farti un esempio alla Sound (gruppo di Adrian Borland) o come possono avere anche i Cure. Ovviamente usando il plettro. Trovo che Simon Gallup abbia uno stile fantastico. Al momento ho due Epiphone Thunderbird, (uno classico e uno non-reverse. Sto pensando ad un Rickenbacker. Me lo regalo quando torneremo a fare il primo live!
LDP: Grazie ragazzi...
Pps: Grazie a te.
Dsg: Grazie a te, è stato un piacere. Spero di incontrarti un giorno, magari per un concerto dalle tue parti.
KYRIE DISCOGRAFIA:
Da Lontano 1995
Biennale 1996
In Ricordo Di Edith Behar 1997
Le Inutili Divagazioni Di Un Aeronauta 2000
Le Meccaniche Del Quinto 2004
Lo Splendore Del Mattino Che Viene 2012
Quella che segue è la chiacchierata/intervista che ho avuto con Piero Sciortino (voce, chitarra, testi, musiche) e Dario Sangiorgi (basso), con tanto di “incursione” di Roberto Vidè, il tastierista.
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LDP: Voglio iniziare quest'intervista con un doveroso riconoscimento: reputo i Kyrie una band davvero interessante, intrigante e anche diversa -in accezione positiva- da altri gruppi italiani che propongono un discorso simile. Partendo proprio da questo, vi chiedo una sorta di bilancio, considerato che vi siete formati nel 1993; dopo vent'anni che siete in gioco potete dichiararvi soddisfatti di quanto seminato e raccolto?
Pps: Innanzitutto grazie. Soddisfatto? Se rispondessi di sì direi una stupidaggine. E altrettanto se dicessi di no. Mi spiego: quando si parte con il desiderio di fare musica, comporre, scrivere, suonare in un gruppo, la passione spesso è bruciante e ciò che normalmente si cerca è di rendere la musica sempre più presente nelle ore, nei giorni ecc. Quando questo non accade è chiaro che dispiaccia. Ognuno di noi ha il suo lavoro e la musica, pur se presente o molto presente, non è certo ciò che ci sostenta e quindi resta nella pratica qualcosa di periferico anche se, in realtà, parlo per me naturalmente, resta del tutto centrale e fondamentale nella mia vita. Il fatto che non sia un’occupazione la fa rimanere una sorta di isola incontaminata in cui è bello trascorrere del tempo. Un’ isola ancora oggi, come trent’anni fa, piena di sorprese, di scoperte e di cose che stupiscono. Inoltre sono felice che nel nostro piccolissimo, abbiamo avuto tante parole di stima sia per i nostri lavori in studio sia per i concerti.
Dsg: Fa molto piacere quando a distanza di anni, dal nostro ultimo concerto, qualcuno ci scrive chiedendoci informazioni sui nostri nuovi progetti in studio o live, con la speranza di poterci rivedere e risentire. Oppure vedere su Facebook che qualcuno pubblica una nostra canzone. Questo significa che qualcosa abbiamo lasciato.
LDP: Nei vostri dischi convivono armoniosamente rock, new wave, pop raffinato, dark “illuminato” e molto altro. Inoltre, avete coraggiosamente scelto di esprimervi in italiano, aggiungendo al tutto una naturale propensione a testi letterari e pieni di riferimenti artistici non banali. Sappiamo che l'Italia è un paese ostico, in quanto a ricezione di proposte che rifuggano dal melodico obbligatorio e da certo semplicismo rock: ritenete che questa vocazione “alta” abbia pagato quanto poteva?
Pps: Sia per quanto riguarda la musica, sia per i testi mi sono sempre sentito libero di fare esattamente ciò che sentivo. In un gruppo, poi, ti confronti, ascolti gli altri, percepisci se la direzione di una canzone, ad esempio, va dove avevi deciso andasse o sperato andasse oppure no. È capitato in passato di rompere un accordo discografico perché il responsabile dell’etichetta aveva mixato, manomettendo il pezzo (che tra l’altro era una cover di Battisti per il mensile Mucchio Selvaggio) su cui avevamo lavorato. E il tutto senza assolutamente avvertirci. Lo abbiamo scoperto quando il giornale era oramai nelle edicole e abbiamo ascoltato il lavoro. Dal mio punto di vista è una forma di violenza e un’azione del tutto irrispettosa. Tornando alla tua domanda, non c’è da parte mia, o nostra, nessuna vocazione alta. C’è il fatto di sentire in un certo modo e tentare di fissare questo sentire in una canzone. Quando scrivo cerco semplicemente di raggiungere un risultato che mi piaccia, in cui mi possa ritrovare, che dia un senso di compiuto e di bello. Cosa che peraltro dura poco. Trovo sempre difetti in quello che ho fatto. Mi ci vuole tempo affinché torni a guardare o ad ascoltare una nostra canzone con la giusta distanza. All’inizio le canzoni sono come dei figli, le ami, le educhi, ci lavori su, cerchi di non fargli fare ciò che vogliono loro. Poi appena le registri le abbandoni come fossero diventate compagne noiose e rompiscatole. Nel tempo, non sempre accade ma ogni tanto sì, ricompaiono come vecchie foto e le riguardi con benevolenza. In certi casi non ne senti più i difetti ma solo ciò che c’è di buono.
LDP: Dal vostro esordio, “Da lontano” del 1995, all'ultimo “Lo splendore del mattino che viene” del 2012, la vostra evoluzione è tangibile, secondo un percorso che appare coerente e naturale. La seducente cupezza dei primi lavori non è scomparsa, ma nell'ultimo disco c'è un suono più ricco e zeppo di rimandi. Mi raccontate del vostro cammino creativo e di come si è modificato negli anni?
Pps: È difficile rispondere. Una cosa è certa, sia nella musica sia soprattutto nelle parole si avverte il fatto che ciò che prima ti piaceva, ti seduceva, oggi ti è abbastanza insopportabile. Questo mi accade soprattutto ascoltando i miei vecchi testi. Immagini a volte troppo angosciate o angoscianti che sono lontane mille miglia da ciò che oggi scriverei. A volte mi chiedo chi le abbia scritte. Oggi certamente non sono più uguale a colui che le scrisse anni e anni fa. Altre cose invece mi piacciono ancora e riascoltandole penso che non avrei potuto fare di meglio. Ci sono canzoni come “Lipsia 1933” o “Il dominio delle frequenze” o “Aggredendo i salici” o “Caffè viennese” che reputo ancora oggi davvero buone. Da parte mia la ricerca di immagini, sonorità un po’ più luminose rispetto al passato riflette certamente il modo diverso tramite cui vedo le cose e me stesso.
LDP: Una delle qualità dei Kyrie, che emerge al primo ascolto, è la spontaneità dell'approccio, pur considerando la complessità lirico/musicale. Niente di studiato a tavolino, nel senso di strizzare l'occhio ad un facile appeal commerciale. Eppure, il taglio è internazionale: pezzi come “Altrove ed oltre”, “I 7 rintocchi”, “Ritiro estivo”, “I quadri di Goya” (favoloso), “L'uomo senza nome” (con un basso espressionista)... non è un risultato da poco mescolare un sound vicino ai Cure, ma non derivativo, con strutture armoniche europee. Qual è stato il segreto di quest'alchimia?
Pps: Non so. Non c’è davvero nessun segreto. C’è solo l’aver seguito sempre e solo ciò che mi muoveva, che ci muoveva. Tentare di fare cose di cui saremmo andati orgogliosi, almeno in buona parte, facendole ascoltare tramite disco o tramite i live. Tutto qui. Per il resto non so nemmeno come si scriva a tavolino, penso sia interessante saperlo fare, saper progettare una canzone con lo scopo che abbia successo. Io non lo so fare. Non lo sappiamo fare. E può essere stato un limite, certamente.
LDP: Non soffermandoci troppo su un disco immortale ed irripetibile come Disintegration dei Cure, che sono certo amate molto (penso a L'aeronauta in particolare), mi raccontate dei vostri principali debiti musicali? Avete gusti differenti all'interno della band?
Pps: Abbiamo certamente gusti diversi ma, in alcuni casi, similissimi. Io ascolto molta musica da sempre anche se non per forza mi sento in obbligo di andare alla ricerca delle nuove cose, tendenze ecc. amo la musica classica da molti anni ormai. Bach, Mozart, Brahms, Malher, Arvo Part e Gorecki su tutti. Nel pop o nel rock sopra tutti ci sono i Beatles che restano per me un miracolo di talento insuperato e secondo me insuperabile. Poi a cascata decine di altri nomi che amo tantissimo. I Cure, i Led Zeppelin (mentre rispondo alle tue domande sto ascoltando il loro Phisical Graffiti), i Pink Floyd, Battiato, l’ultimo De Andrè, Battisti. Oggi il mio gruppo preferito sono i Mogwai e molti gruppi di così detto post rock mi piacciono molto come Explosion in the sky, God is an astronaut. Amo infinitamente i Cranes, gli Slowdive ed i Joy division e mi fermo qui altrimenti me ne vengono in mente altre decine.
Rv: Per me Joy division, Pink Floyd. Come scena rock italiana i Marlene Kuntz e i primi Diaframma.
Dsg: Confermando i gusti dei miei soci, ultimamente ascolto molto gli Archive.
LDP: Lo stato della discografia italiana -e probabilmente del quoziente intellettivo dei residui discografici italiani- è con tutta probabilità ai minimi storici. Al riciclarsi di nomi decotti e pompati si è aggiunto il deforme carrozzone dei talent. I negozi di dischi stanno chiudendo tutti, gli specializzati sono come i panda e hanno le ore contate. C'è modo di reagire a questo triste ed inesorabile declino? Perché la morte della musica fisica, del coraggio di investire in prodotti validi e di sostanza, sono aspetti che vengono definiti “evoluzione del sistema”. Non si potrebbe parlare piuttosto di involuzione totale?
Pps: I talent non li seguo. Ho seguito la prima edizione di X-Factor e basta. Ogni tanto si sente qualche nome uscito di lì. Qualcuno ha vero successo qualcuno invece entra in una specie di tritacarne che più o meno velocemente lo distrugge. Molti ragazzi vengono illusi, spremuti, usati (anche in buona fede) per un tempo e poi spente le luci non rimane nulla di nulla. Non è un’evoluzione né un’involuzione. È semplicemente ciò che è. Si vendono pochi dischi, si cerca di creare il caso dell’anno, che stupisca, che sappia far breccia e poi si riparte da capo l’anno dopo. C’è molto da fare in Italia considerando che siamo amati all’estero per Bocelli o peggio ancora da “ Il volo” o da Allevi.
Dsg: Le case discografiche ormai investono su pochi progetti e su quelli puntano tutto. Per gli altri c’è ormai poco spazio e devono quindi arrangiarsi da soli. Per fortuna adesso ci sono i social web, i digital store con i quali un gruppo può cominciare a farsi vedere e sentire. Rimpiango il fatto che nel 2003 quando uscì “Le meccaniche del quinto” non ci fossero ancora questi mezzi, perché ci avrebbero aiutato sicuramente a crescere.
LDP: Dopo venti anni e sei lavori, quali sono i piani dei Kyrie per il prossimo futuro? Pensate che sia possibile fare in modo che alcuni dei vostri dischi possano essere ristampati? Ho ancora persone che mi chiamano chiedendo se riesco a procurare altre copie de “Le meccaniche del quinto”, che all'epoca diffusi massicciamente nel negozio import dove lavoravo...
Pps: Per chi fosse interessato a “Le meccaniche del quinto” il nostro primo disco ufficiale del 2004, distribuito da Audioglobe, noi ne abbiamo ancora qualche decina di copie. Dei primi 4 demo ( i primi 3, pensa, erano nati in principio come musicassette) ogni tanto ne stampavamo qualche copia per i concerti. Ne abbiamo a malapena copie personali. L’ultimo lavoro “Lo splendore del mattino che viene” si può acquistare su iTunes, non è mai stato stampato fisicamente. Resta, almeno per ora, in formato virtuale. A volte penso all’idea di un cofanetto che racchiuda tutti e sei i lavori. Così, anche solo per noi, per regalarcelo a Natale. Attualmente stiamo provando per nuovi concerti e credo entro il 2016 uscirà un nostro nuovo lavoro.
Dsg: Sì, l’idea di una ristampa di tutti gli album la trovo anch’io una cosa che si debba fare. Dovremo trovare solo il modo più giusto e non troppo oneroso.
LDP: Tornando alla scena rock italiana, che idea ne avete? Verso quali colleghi provate stima? Vi faccio questa domanda, ben sapendo che per i suoni che proponete il vostro background dev'essere per forza a tutto tondo e non certo limitato alla scena nostrana. Ma mi incuriosisce cosa vi piace (e cosa vi è piaciuto) in Italia.
Pps: In Italia come dicevo Battiato su tutti ma anche Battisti, i CSI, qualcosa dei Marlene o degli Afterhours, Benvegnù. Mi piace Carmen Consoli e poi, che so, qualcosa di Erica Mu.
Dsg: Io rimango sui classici, come De Andrè, Battiato, Battisti.
LDP: Una domanda specifica per il bassista Dario Sangiorgi... Dario, questo blog si occupa pariteticamente di scrittura, rock e basso elettrico, quindi non posso esimermi dal farti una domanda più approfondita sul tuo stile e sulle tue influenze. Il basso nei Kyrie ha un ruolo preponderante, molto cupo e solido ma al contempo scattante, pronto a sorreggere la melodia e la voce di Piero. Quali bassisti ti hanno maggiormente influenzato? Qual è la tua strumentazione attuale?
Dsg: Mi piace un suono definito del basso, per farti un esempio alla Sound (gruppo di Adrian Borland) o come possono avere anche i Cure. Ovviamente usando il plettro. Trovo che Simon Gallup abbia uno stile fantastico. Al momento ho due Epiphone Thunderbird, (uno classico e uno non-reverse. Sto pensando ad un Rickenbacker. Me lo regalo quando torneremo a fare il primo live!
LDP: Grazie ragazzi...
Pps: Grazie a te.
Dsg: Grazie a te, è stato un piacere. Spero di incontrarti un giorno, magari per un concerto dalle tue parti.
KYRIE DISCOGRAFIA:
Da Lontano 1995
Biennale 1996
In Ricordo Di Edith Behar 1997
Le Inutili Divagazioni Di Un Aeronauta 2000
Le Meccaniche Del Quinto 2004
Lo Splendore Del Mattino Che Viene 2012
luca de pasquale 2015
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Ho scoperto tardivamente i Fluxus, e cioè qualche anno fa. E non per merito mio, ma di un amico che me ne aveva parlato più volte.
Finché la scintilla non è scattata.
Non ho mai avuto problemi di esterofilia nevrotica, per carità, ma certe perle del rock italiano non me le sono gustate a tempo, forse troppo a caccia di realtà minori e ribelli da altri universi.
I Fluxus, da Torino. Li avevo venduti negli anni dell’import store, ma non li avevo ascoltati; perché altrimenti le cose sarebbero cambiate e il processo di conoscenza sarebbe presto diventato una passione. Come è stato dopo.
Quattro dischi, uno più bello dell’altro. Abrasivi, situazionisti, completamente scollegati dall’ortodossia stessa della musica “alternativa”, in fondo imprendibili, indefinibili. Capaci di esordire con un disco, “Vita in un pacifico nuovo mondo”, che era sì noise ma anche molto altro, e di concludere una parabola aperta e lucida con un album melodico, rarefatto, denso e molto emotivo, quello per intenderci con il porcellino nel rosa, album eponimo.
Da quando fanno parte del mio bagaglio musicale ma anche interiore, non ho mai tentato biecamente di confinare i Fluxus tra gli artisti di culto che spesso, per celia e retorica, finiamo per considerare solo dei grandi incompresi con un talento spaventoso. Continuo, ed è anche un desiderio, a considerare i Fluxus come un’entità aperta, rinfrancato dalla recente reunion e dalla giusta considerazione che è stata loro rivolta, ma è sempre troppo poco, con un disco tributo uscito nel 2013, “Tutto da rifare”, che ha visto diverse band “angolari” cimentarsi con il repertorio di questi scontrosi eroi.
Colmo la mia sezione di rimpianti, due su tutti, non averli vissuti dal vivo e non averli sparati al massimo nell’ultima insopportabile macelleria musicale dove ho lavorato, rivolgendo alcune domande a Luca Pastore, basso e chitarra nel gruppo, ma anche filmaker, sceneggiatore, autore e quant’altro.
LDP: Luca, ho ancora un bel ricordo di quando vi ho scoperti. In una serata in cui avevo macinato i soliti Gang Of Four e “Pink flag” dei Wire. Fulminazione. La prima impressione è rimasta, e cioè di un magma non etichettabile, una sorta di contenitore sonoro senza pareti. Ho tentato anch’io, noise, post-punk, art rock violento… e poi ho rinunciato. Siete sfuggiti ad ogni possibile inquadramento: questa a mio avviso è stata la vostra grande forza; in realtà ve ne siete meravigliosamente fregati del mercato. Cambieresti qualcosa nel vostro percorso?
LP: Intanto mi fa piacere che tu ci abbia 'scoperti' mentre macinavi Gang of Four e Wire, due gruppi che ho amato e amo moltissimo per il loro coraggio, la loro coerenza e (nel caso dei Gang of Four dei primi 2 dischi) la loro sensibilità politica.
In realtà i Fluxus al tempo del primo album sono stati inquadrati come 'grunge', forse perchè allora qualsiasi cosa suonasse forte era etichettata così. Certamente il punk c'entrava molto, sia per le nostre storie personali che per i nostri gusti... I Wire possono essere un buon punto di riferimento: punk 'obliquo' e intellettuale.
Ma questo riguarda la musica, gli ascolti, i feticismi personali... Quello che per noi doveva fare la differenza erano le parole, lo sguardo su quello che ci circondava: in questo senso, facendo quella scelta, era automatico rinunciare ad un confronto con 'il mercato', eravamo perfettamente consapevoli che facevamo musica invendibile almeno in Italia, e sopratutto che dicevamo cose poco 'correct'... ma ci piaceva, ed eravamo molto donchiscotteschi, a volte persino sprezzanti...
Non cambierei nulla perchè non potrei farlo e non avremmo potuto farlo nemmeno allora: i Fluxus erano e sono quella cosa lì, nel bene e nel male.
LDP: La sensazione che si prova oggi, rimestando e rovistando nel rock “altro” italiano, è che manchi a tutti gli effetti una band come i Fluxus, capace di rievocare Sonic Youth e Wire, la rarefazione estetica intelligente e la pura, giusta, brutalità. Come vedi la scena italiana odierna?
LP: Sono sincero, non seguo la musica in termini di 'scene', cosa che negli anni '80 e '90 facevo. Credo ci sia tutto e il contrario di tutto in Italia e fuori. C'è un'offerta pazzesca, e questo è bellissimo per chi suona ma è davvero impegnativo per chi ascolta: si rischia di non approfondire nulla, di saltare qua e là freneticamente senza avere punti di riferimento. Ci sono cose che mi piacciono, mi appartengono e che sento affini al nostro percorso: Fuzz Orchestra, Teatro degli Orrori, Linea77, i vecchi grandi Massimo Volume... in Italia continuo a sintonizzarmi sulle cose che sento più vicine. Pur senza approfondire troppo mi piacciono anche parecchie delle giovani band che hanno reinterpretato i nostri pezzi in "Tutto da rifare", e in generale tutti quelli che rischiano e sono liberi di suonare quello che gli pare senza calcoli.
LDP: Tutti voi siete impegnati in altro, pensi che potrebbe verificarsi la possibilità di incidere di nuovo insieme?
LP: Fino ad un paio di anni fa avrei risposto sicuramente di no. Ero assolutamente contrario a fare qualsiasi cosa sotto l'etichetta Fluxus. Mi sembrava che potessimo essere fraintesi, che il fatto di suonare ancora insieme potesse essere interpretato come puro egocentrismo. Ora, dopo aver ripreso a suonare insieme devo dire che non me ne frega nulla di come possa essere interpretata questa reincarnazione: le sensazioni sono le stesse di prima, l'attitudine, un pò isolazionista, anche... quindi credo che prima o poi faremo qualcosa di nuovo.
LDP: Naturalmente, i vostri dischi sono fuori catalogo. Cosa che non stupisce, considerata la miopia discografica italiana, e che costrinse anche me ad una gimkana inestricabile tra siti tedeschi e austriaci e venditori che facevano pagare “Non esistere” a peso d’oro. Ma l’ho fatto. Non voglio addentrarmi in questioni di diritti ed altro, ma pensi che l’idea di un poker di ristampe sia inattuabile?
LP: Immagino che anche tu come me sia legato al supporto fisico, al disco come oggetto che si può toccare. Io sono veramente fondamentalista, ma non per snobismo: amo davvero profondamente la musica e se qualsiasi altro oggetto (dalla macchina ai vestiti ai mobili di casa e persino ai libri e agli strumenti) ha per me un valore puramente 'strumentale', ai miei dischi sono legato visceralmente. Ascolto esclusivamente vinile. Ma, lo ribadisco, non per snobismo: quando ho il tempo per ascoltare musica è automatico che scelga un vinile, tanto che ho venduto la maggior parte dei miei cd (e ne avevo tanti avendo scritto recensioni per 'il manifesto' per 3 anni). La musica 'liquida' non mi appartiene, non scarico nulla: se qualcosa ascoltato in rete mi piace cerco il vinile, se non lo trovo devo rinunciare ad ascoltare quel disco. Ammetto senza problemi di essere feticista, so che la maggior parte di coloro che appartengono alla generazione successiva alla mia non riescono a concepire questo atteggiamento: amen. Per questo la prima cosa che dovrebbe succedere in tempi non biblici è un'edizione in vinile del maialino (che è l'unico dei nostri dischi uscito solo in cd) con un intero disco inedito in allegato (in download o cd, ahimè): "Satelliti e marziani", un lavoro mooooolto sperimentale registrato nel 2004. Ne stiamo parlando con i ragazzi di INRI: vedremo, anche per gli altri dischi.
LDP: Come detto precedentemente, non siete stati assolutamente derivativi. Ma mi piace chiederti quali sono state le tue influenze personali, in materia di musicisti, band e anche rappresentanti di altre arti. Mi fai qualche nome?
LP: Le mie influenze sono davvero tante, tantissime, diverse, contradditorie. L'arte in generale è il punto di partenza, prima ancora della musica. E allora sembra banale citare gli artisti Fluxus, da Beuys a Nam June Paik, e ovviamente Maciunas (che è anche il nome del gruppo con Giorgio Ciccarelli degli Afterhours e Robi dei Fluxus). La cosa che mi ha sempre affascinato del Fluxus è la capacità di utilizzare diverse discipline artistiche rispettandone le caratteristiche. E' un modo di concepire l'espressione artistica estremamente moderno, precursore delle opportunità che la tecnologia offre oggi a chi voglia esprimersi artisticamente.
Ho iniziato ad ascoltare musica negli anni '70, veramente da bambino, con alcuni 'maestri' più grandi che mi hanno indirizzato verso quello che allora era l'underground... Quindi le mie radici sono nella musica creativa dei '70, dai Soft Machine ai Gong, da Zappa agli Area e ad altri 1000. Poi la rivoluzione punk e postpunk, l'immersione nella scena '80 e la scoperta di una libertà totale, non necessariamente legata all'abilità strumentale: Wire, Rip Rig and Panic, Ludus, Contortions, Tuxedomoon, Swans, Death in June, Psychic Tv, Gaznevada, Dead Kennedys, Black Flag, Germs, Cabaret Voltaire, Pere Ubu, This Heat, Pop Group e tantissima altra roba ispida e spinosa, fino al bridge di Husker Du e Pixies che aprono i '90... Da lì in poi ascolto praticamente ogni disco fino ai 2000.
Del cinema non parlo perchè aprirei una porta che è meglio tenere chiusa. Comunque il mio film di riferimento è "Festen", senza se e senza ma.
LDP:Siete stati “politici” senza cadere in nessuna delle tristi trappole della musica di rottura. Siete stati di rottura senza abbracciare l’estetica squadrata della ribellione, anzi spiazzando; pensi che oggi questo sarebbe ancora possibile?
LP: Siamo stati politici perché siamo stati documentaristici. Non abbiamo mai fatto altro che descrivere quello che vedevamo. Non siamo stati retorici, o almeno lo spero. Non siamo stati partitici o movimentisti. Non siamo stati "l'organo" musicale di nessun movimento: i nostri pezzi non erano adatti ai sound system delle manifestazioni (alle quali peraltro partecipavamo e, in parte, partecipiamo).
La politica onesta deve tornare ad essere spietata, anche e sopratutto con se stessi e con gli "amici", mettendo nel conto la possibilità di essere isolati. Odiamo i riti, anche quando ci commuovono...o forse proprio per questo. La resistenza bisogna farla, ognuno come può, non celebrarla.
Certo che è ancora possibile: anzi, è proprio il momento nel quale ci si può liberare delle etichette e guardare alla sostanza, alla coerenza, alla sincerità.
LDP: Il disco dei Fluxus che amo di più, pur adorando i precedenti tre, è proprio l’ultimo. L’ho ascoltato fino a consumarlo e “Una splendida giornata di luna” mi piacerebbe riascoltarla oggi da voi e da uno come Faust’O. Il “disco del porcellino” mi ha colpito anche per la quantità di persone che ha fatto affondare, nel senso di rimanerne affascinati, avvinghiati: persone che ascoltavano Dire Straits, reggae, lounge, John Coltrane mi hanno chiesto di procurare loro quel disco. Qual è stata l’alchimia di quel lavoro?
LP: I Fluxus hanno avuto diverse incarnazioni. Al di là del nocciolo duro formato da me, Franz e Robi, sui vari dischi e nei vari tour si è alternata almeno una quindicina di musicisti, alcuni per lunghi tratti del nostro percorso (come Adriano Cresto e Simone Cinotto), altri per periodi più brevi, con rientri e uscite. Attualmente, oltre a noi tre, nei Fluxus suona anche Fabio Lombardo, che già aveva partecipato al tour di "Pura Lana Vergine". Dopo quel tour, come già era successo per i due dischi precedenti, abbiamo azzerato tutto, ma in maniera più radicale che in passato. Dopo 6 anni e 3 dischi nei quali cercavamo geometria e potenza, abbiamo deciso che volevamo esplorare un'altra strada. In realtà stavamo solo cercando un mood diverso per le stesse cose, dato che le parole erano più o meno quelle: forse il piano del racconto si faceva un pò meno terreno e un po' più mentale e visionario... Forse anche noi sentivamo una trasformazione sociale e politica in arrivo. Sicuramente dal punto di vista musicale il maialino nasce in modo diverso dai 3 dischi precedenti. Prima il materiale veniva composto per essere suonato dal vivo: si facevano parecchi concerti suonando i nuovi pezzi poi si andava in studio a registrarli praticamente in diretta. Per il maialino invece abbiamo lavorato in modo diverso, componendo il disco quasi completamente in studio. Io suonavo la chitarra già dal tour di "Pura Lana Vergine", e per la prima volta il basso è stato aggiunto ai pezzi già composti e parzialmente registrati. Attualmente suono una chitarra modificata con 4 corde 'spesse', splittata su due ampli, uno da chitarra e uno da basso. I Fluxus ora suonano senza basso. L'atmosfera generale del maialino doveva consentire a Franz di cantare senza urlare, in modo da sottolineare alcune sfumature che in precedenza erano affogate nel marasma strumentale. Strumentalmente ci interessava utilizzare lo studio in modo più completo: ci sono inserti di strumenti particolari (il flauto, il mellotron), faccio addirittura i cori, c'è un contributo sostanziale di Roy Paci, c'è la collaborazione di Theo Teardo... E' un disco probabilmente più emotivo degli altri, forse più amaro.
LDP: Sei regista, autore, hai fondato la Legovideo, hai curato alcuni tra i migliori videoclip di band “non allineate”. Il tuo percorso sembra dimostrare che, se si vuole, si riesce a trovare una voce e a non confinarsi in una sola espressione artistica. Come sei riuscito a trovare il tuo equilibrio tra stimoli ed impegni diversi?
LP: Non ho mai trovato l'equilibrio in realtà. Il bisogno di esprimermi (insieme all'egocentrismo senza il quale non si fa nulla) mi ha portato a vincere il timore del giudizio degli altri: ho provato a sperimentare qualsiasi forma di espressione e ho scelto di rischiare di vivere facendo l'artista. E' un gioco bellissimo e molto serio, per il quale a volte ti senti in colpa e hai la sensazione di essere presuntuoso; altre volte l'indisponibilità al compromesso ti crea qualche problema... Sicuramente non viviamo nel luogo e nel tempo migliori per percorrere la strada della sperimentazione artistica, ma malgrado le difficoltà faccio esattamente quello che ho scelto di fare e sono soddisfatto.
LDP: A proposito, “Freakbeat” è stato un film che ha raccolto molti plausi ed elogi. Lo hai diretto nel 2011 e rappresenta un tentativo riuscito di narrare di musica e non solo, occupandosi del beat italiano (con Freak Antoni assolutamente “in parte”) senza poter essere definito (e ci risiamo) un “documentario”. Hai altri film in cantiere, al momento?
LP: Il discorso su che cosa sia un 'documentario' è uno dei miei argomenti preferiti e porterebbe via davvero troppo spazio: magari approfondiamo prossimamente...
Ho altri progetti ovviamente, e altrettanto ovviamente il mio problema principale è trovare le sponde produttive per realizzarli, soprattutto in un periodo nel quale quando pronunci la parola 'cultura' le mani corrono al calcio della pistola... Ma bisogna crederci e insistere, e prendere i tuoi interlocutori per sfinimento: o ti cacciano o cedono.
LDP: Una sola ultima domanda: è ancora possibile essere punk?
LP: Non è certamente una scelta, è qualcosa che si manifesta a prescindere dall'estetica, dalle uniformi, dai gusti... Credo sia un fatto genetico: fra gli uomini delle caverne il primo che ha disegnato il graffito del bufalo era sicuramente considerato un tipo strano.
Finché la scintilla non è scattata.
Non ho mai avuto problemi di esterofilia nevrotica, per carità, ma certe perle del rock italiano non me le sono gustate a tempo, forse troppo a caccia di realtà minori e ribelli da altri universi.
I Fluxus, da Torino. Li avevo venduti negli anni dell’import store, ma non li avevo ascoltati; perché altrimenti le cose sarebbero cambiate e il processo di conoscenza sarebbe presto diventato una passione. Come è stato dopo.
Quattro dischi, uno più bello dell’altro. Abrasivi, situazionisti, completamente scollegati dall’ortodossia stessa della musica “alternativa”, in fondo imprendibili, indefinibili. Capaci di esordire con un disco, “Vita in un pacifico nuovo mondo”, che era sì noise ma anche molto altro, e di concludere una parabola aperta e lucida con un album melodico, rarefatto, denso e molto emotivo, quello per intenderci con il porcellino nel rosa, album eponimo.
Da quando fanno parte del mio bagaglio musicale ma anche interiore, non ho mai tentato biecamente di confinare i Fluxus tra gli artisti di culto che spesso, per celia e retorica, finiamo per considerare solo dei grandi incompresi con un talento spaventoso. Continuo, ed è anche un desiderio, a considerare i Fluxus come un’entità aperta, rinfrancato dalla recente reunion e dalla giusta considerazione che è stata loro rivolta, ma è sempre troppo poco, con un disco tributo uscito nel 2013, “Tutto da rifare”, che ha visto diverse band “angolari” cimentarsi con il repertorio di questi scontrosi eroi.
Colmo la mia sezione di rimpianti, due su tutti, non averli vissuti dal vivo e non averli sparati al massimo nell’ultima insopportabile macelleria musicale dove ho lavorato, rivolgendo alcune domande a Luca Pastore, basso e chitarra nel gruppo, ma anche filmaker, sceneggiatore, autore e quant’altro.
LDP: Luca, ho ancora un bel ricordo di quando vi ho scoperti. In una serata in cui avevo macinato i soliti Gang Of Four e “Pink flag” dei Wire. Fulminazione. La prima impressione è rimasta, e cioè di un magma non etichettabile, una sorta di contenitore sonoro senza pareti. Ho tentato anch’io, noise, post-punk, art rock violento… e poi ho rinunciato. Siete sfuggiti ad ogni possibile inquadramento: questa a mio avviso è stata la vostra grande forza; in realtà ve ne siete meravigliosamente fregati del mercato. Cambieresti qualcosa nel vostro percorso?
LP: Intanto mi fa piacere che tu ci abbia 'scoperti' mentre macinavi Gang of Four e Wire, due gruppi che ho amato e amo moltissimo per il loro coraggio, la loro coerenza e (nel caso dei Gang of Four dei primi 2 dischi) la loro sensibilità politica.
In realtà i Fluxus al tempo del primo album sono stati inquadrati come 'grunge', forse perchè allora qualsiasi cosa suonasse forte era etichettata così. Certamente il punk c'entrava molto, sia per le nostre storie personali che per i nostri gusti... I Wire possono essere un buon punto di riferimento: punk 'obliquo' e intellettuale.
Ma questo riguarda la musica, gli ascolti, i feticismi personali... Quello che per noi doveva fare la differenza erano le parole, lo sguardo su quello che ci circondava: in questo senso, facendo quella scelta, era automatico rinunciare ad un confronto con 'il mercato', eravamo perfettamente consapevoli che facevamo musica invendibile almeno in Italia, e sopratutto che dicevamo cose poco 'correct'... ma ci piaceva, ed eravamo molto donchiscotteschi, a volte persino sprezzanti...
Non cambierei nulla perchè non potrei farlo e non avremmo potuto farlo nemmeno allora: i Fluxus erano e sono quella cosa lì, nel bene e nel male.
LDP: La sensazione che si prova oggi, rimestando e rovistando nel rock “altro” italiano, è che manchi a tutti gli effetti una band come i Fluxus, capace di rievocare Sonic Youth e Wire, la rarefazione estetica intelligente e la pura, giusta, brutalità. Come vedi la scena italiana odierna?
LP: Sono sincero, non seguo la musica in termini di 'scene', cosa che negli anni '80 e '90 facevo. Credo ci sia tutto e il contrario di tutto in Italia e fuori. C'è un'offerta pazzesca, e questo è bellissimo per chi suona ma è davvero impegnativo per chi ascolta: si rischia di non approfondire nulla, di saltare qua e là freneticamente senza avere punti di riferimento. Ci sono cose che mi piacciono, mi appartengono e che sento affini al nostro percorso: Fuzz Orchestra, Teatro degli Orrori, Linea77, i vecchi grandi Massimo Volume... in Italia continuo a sintonizzarmi sulle cose che sento più vicine. Pur senza approfondire troppo mi piacciono anche parecchie delle giovani band che hanno reinterpretato i nostri pezzi in "Tutto da rifare", e in generale tutti quelli che rischiano e sono liberi di suonare quello che gli pare senza calcoli.
LDP: Tutti voi siete impegnati in altro, pensi che potrebbe verificarsi la possibilità di incidere di nuovo insieme?
LP: Fino ad un paio di anni fa avrei risposto sicuramente di no. Ero assolutamente contrario a fare qualsiasi cosa sotto l'etichetta Fluxus. Mi sembrava che potessimo essere fraintesi, che il fatto di suonare ancora insieme potesse essere interpretato come puro egocentrismo. Ora, dopo aver ripreso a suonare insieme devo dire che non me ne frega nulla di come possa essere interpretata questa reincarnazione: le sensazioni sono le stesse di prima, l'attitudine, un pò isolazionista, anche... quindi credo che prima o poi faremo qualcosa di nuovo.
LDP: Naturalmente, i vostri dischi sono fuori catalogo. Cosa che non stupisce, considerata la miopia discografica italiana, e che costrinse anche me ad una gimkana inestricabile tra siti tedeschi e austriaci e venditori che facevano pagare “Non esistere” a peso d’oro. Ma l’ho fatto. Non voglio addentrarmi in questioni di diritti ed altro, ma pensi che l’idea di un poker di ristampe sia inattuabile?
LP: Immagino che anche tu come me sia legato al supporto fisico, al disco come oggetto che si può toccare. Io sono veramente fondamentalista, ma non per snobismo: amo davvero profondamente la musica e se qualsiasi altro oggetto (dalla macchina ai vestiti ai mobili di casa e persino ai libri e agli strumenti) ha per me un valore puramente 'strumentale', ai miei dischi sono legato visceralmente. Ascolto esclusivamente vinile. Ma, lo ribadisco, non per snobismo: quando ho il tempo per ascoltare musica è automatico che scelga un vinile, tanto che ho venduto la maggior parte dei miei cd (e ne avevo tanti avendo scritto recensioni per 'il manifesto' per 3 anni). La musica 'liquida' non mi appartiene, non scarico nulla: se qualcosa ascoltato in rete mi piace cerco il vinile, se non lo trovo devo rinunciare ad ascoltare quel disco. Ammetto senza problemi di essere feticista, so che la maggior parte di coloro che appartengono alla generazione successiva alla mia non riescono a concepire questo atteggiamento: amen. Per questo la prima cosa che dovrebbe succedere in tempi non biblici è un'edizione in vinile del maialino (che è l'unico dei nostri dischi uscito solo in cd) con un intero disco inedito in allegato (in download o cd, ahimè): "Satelliti e marziani", un lavoro mooooolto sperimentale registrato nel 2004. Ne stiamo parlando con i ragazzi di INRI: vedremo, anche per gli altri dischi.
LDP: Come detto precedentemente, non siete stati assolutamente derivativi. Ma mi piace chiederti quali sono state le tue influenze personali, in materia di musicisti, band e anche rappresentanti di altre arti. Mi fai qualche nome?
LP: Le mie influenze sono davvero tante, tantissime, diverse, contradditorie. L'arte in generale è il punto di partenza, prima ancora della musica. E allora sembra banale citare gli artisti Fluxus, da Beuys a Nam June Paik, e ovviamente Maciunas (che è anche il nome del gruppo con Giorgio Ciccarelli degli Afterhours e Robi dei Fluxus). La cosa che mi ha sempre affascinato del Fluxus è la capacità di utilizzare diverse discipline artistiche rispettandone le caratteristiche. E' un modo di concepire l'espressione artistica estremamente moderno, precursore delle opportunità che la tecnologia offre oggi a chi voglia esprimersi artisticamente.
Ho iniziato ad ascoltare musica negli anni '70, veramente da bambino, con alcuni 'maestri' più grandi che mi hanno indirizzato verso quello che allora era l'underground... Quindi le mie radici sono nella musica creativa dei '70, dai Soft Machine ai Gong, da Zappa agli Area e ad altri 1000. Poi la rivoluzione punk e postpunk, l'immersione nella scena '80 e la scoperta di una libertà totale, non necessariamente legata all'abilità strumentale: Wire, Rip Rig and Panic, Ludus, Contortions, Tuxedomoon, Swans, Death in June, Psychic Tv, Gaznevada, Dead Kennedys, Black Flag, Germs, Cabaret Voltaire, Pere Ubu, This Heat, Pop Group e tantissima altra roba ispida e spinosa, fino al bridge di Husker Du e Pixies che aprono i '90... Da lì in poi ascolto praticamente ogni disco fino ai 2000.
Del cinema non parlo perchè aprirei una porta che è meglio tenere chiusa. Comunque il mio film di riferimento è "Festen", senza se e senza ma.
LDP:Siete stati “politici” senza cadere in nessuna delle tristi trappole della musica di rottura. Siete stati di rottura senza abbracciare l’estetica squadrata della ribellione, anzi spiazzando; pensi che oggi questo sarebbe ancora possibile?
LP: Siamo stati politici perché siamo stati documentaristici. Non abbiamo mai fatto altro che descrivere quello che vedevamo. Non siamo stati retorici, o almeno lo spero. Non siamo stati partitici o movimentisti. Non siamo stati "l'organo" musicale di nessun movimento: i nostri pezzi non erano adatti ai sound system delle manifestazioni (alle quali peraltro partecipavamo e, in parte, partecipiamo).
La politica onesta deve tornare ad essere spietata, anche e sopratutto con se stessi e con gli "amici", mettendo nel conto la possibilità di essere isolati. Odiamo i riti, anche quando ci commuovono...o forse proprio per questo. La resistenza bisogna farla, ognuno come può, non celebrarla.
Certo che è ancora possibile: anzi, è proprio il momento nel quale ci si può liberare delle etichette e guardare alla sostanza, alla coerenza, alla sincerità.
LDP: Il disco dei Fluxus che amo di più, pur adorando i precedenti tre, è proprio l’ultimo. L’ho ascoltato fino a consumarlo e “Una splendida giornata di luna” mi piacerebbe riascoltarla oggi da voi e da uno come Faust’O. Il “disco del porcellino” mi ha colpito anche per la quantità di persone che ha fatto affondare, nel senso di rimanerne affascinati, avvinghiati: persone che ascoltavano Dire Straits, reggae, lounge, John Coltrane mi hanno chiesto di procurare loro quel disco. Qual è stata l’alchimia di quel lavoro?
LP: I Fluxus hanno avuto diverse incarnazioni. Al di là del nocciolo duro formato da me, Franz e Robi, sui vari dischi e nei vari tour si è alternata almeno una quindicina di musicisti, alcuni per lunghi tratti del nostro percorso (come Adriano Cresto e Simone Cinotto), altri per periodi più brevi, con rientri e uscite. Attualmente, oltre a noi tre, nei Fluxus suona anche Fabio Lombardo, che già aveva partecipato al tour di "Pura Lana Vergine". Dopo quel tour, come già era successo per i due dischi precedenti, abbiamo azzerato tutto, ma in maniera più radicale che in passato. Dopo 6 anni e 3 dischi nei quali cercavamo geometria e potenza, abbiamo deciso che volevamo esplorare un'altra strada. In realtà stavamo solo cercando un mood diverso per le stesse cose, dato che le parole erano più o meno quelle: forse il piano del racconto si faceva un pò meno terreno e un po' più mentale e visionario... Forse anche noi sentivamo una trasformazione sociale e politica in arrivo. Sicuramente dal punto di vista musicale il maialino nasce in modo diverso dai 3 dischi precedenti. Prima il materiale veniva composto per essere suonato dal vivo: si facevano parecchi concerti suonando i nuovi pezzi poi si andava in studio a registrarli praticamente in diretta. Per il maialino invece abbiamo lavorato in modo diverso, componendo il disco quasi completamente in studio. Io suonavo la chitarra già dal tour di "Pura Lana Vergine", e per la prima volta il basso è stato aggiunto ai pezzi già composti e parzialmente registrati. Attualmente suono una chitarra modificata con 4 corde 'spesse', splittata su due ampli, uno da chitarra e uno da basso. I Fluxus ora suonano senza basso. L'atmosfera generale del maialino doveva consentire a Franz di cantare senza urlare, in modo da sottolineare alcune sfumature che in precedenza erano affogate nel marasma strumentale. Strumentalmente ci interessava utilizzare lo studio in modo più completo: ci sono inserti di strumenti particolari (il flauto, il mellotron), faccio addirittura i cori, c'è un contributo sostanziale di Roy Paci, c'è la collaborazione di Theo Teardo... E' un disco probabilmente più emotivo degli altri, forse più amaro.
LDP: Sei regista, autore, hai fondato la Legovideo, hai curato alcuni tra i migliori videoclip di band “non allineate”. Il tuo percorso sembra dimostrare che, se si vuole, si riesce a trovare una voce e a non confinarsi in una sola espressione artistica. Come sei riuscito a trovare il tuo equilibrio tra stimoli ed impegni diversi?
LP: Non ho mai trovato l'equilibrio in realtà. Il bisogno di esprimermi (insieme all'egocentrismo senza il quale non si fa nulla) mi ha portato a vincere il timore del giudizio degli altri: ho provato a sperimentare qualsiasi forma di espressione e ho scelto di rischiare di vivere facendo l'artista. E' un gioco bellissimo e molto serio, per il quale a volte ti senti in colpa e hai la sensazione di essere presuntuoso; altre volte l'indisponibilità al compromesso ti crea qualche problema... Sicuramente non viviamo nel luogo e nel tempo migliori per percorrere la strada della sperimentazione artistica, ma malgrado le difficoltà faccio esattamente quello che ho scelto di fare e sono soddisfatto.
LDP: A proposito, “Freakbeat” è stato un film che ha raccolto molti plausi ed elogi. Lo hai diretto nel 2011 e rappresenta un tentativo riuscito di narrare di musica e non solo, occupandosi del beat italiano (con Freak Antoni assolutamente “in parte”) senza poter essere definito (e ci risiamo) un “documentario”. Hai altri film in cantiere, al momento?
LP: Il discorso su che cosa sia un 'documentario' è uno dei miei argomenti preferiti e porterebbe via davvero troppo spazio: magari approfondiamo prossimamente...
Ho altri progetti ovviamente, e altrettanto ovviamente il mio problema principale è trovare le sponde produttive per realizzarli, soprattutto in un periodo nel quale quando pronunci la parola 'cultura' le mani corrono al calcio della pistola... Ma bisogna crederci e insistere, e prendere i tuoi interlocutori per sfinimento: o ti cacciano o cedono.
LDP: Una sola ultima domanda: è ancora possibile essere punk?
LP: Non è certamente una scelta, è qualcosa che si manifesta a prescindere dall'estetica, dalle uniformi, dai gusti... Credo sia un fatto genetico: fra gli uomini delle caverne il primo che ha disegnato il graffito del bufalo era sicuramente considerato un tipo strano.
luca de pasquale 2015
Ho incontrato la musica degli Anatrofobia nel 2002, all’uscita del loro quarto album, “Le cose non parlano”. All’epoca trentenne ed appena assunto da una multinazionale, ero in piena essenza post punk/no wave/RIO e improv, mi sparavo massicce dosi di Etron Fou Leloublan, A Certain Ratio, Gang Of Four, Can, Henry Cow, Cabaret Voltaire… e arrivare a quel disco degli Anatrofobia in quelle condizioni mi permise di capire e poter sondare la portata del gruppo di Perosa Canavese, creato e portato avanti dai fratelli Cartolari (Luca al basso ed elettronica, Alessandro al sax e samples), coadiuvati da Andrea Biondello alla batteria e Mario Simeoni ai fiati, quest’ultimo poi fuoriuscito dal gruppo proprio nel 2002.
Mi piacquero così tanto, gli Anatrofobia, che li segnalai con entusiasmo al mio editore per organizzare degli incontri musica/scrittura, dovevo presentare il mio primo libro e volevo che andasse tutto bene. Ho incontrato dal vivo la band solo a Genova, alla presentazione del mio libro alla Fnac, nel 2005, ed il mio ricordo si ferma alla perfetta esecuzione della band di parte del repertorio recente. Al sottoscritto giocò un brutto tiro la disorganizzazione del luogo e certamente l’emozione, per cui smisi presto di declamare spezzoni del mio libro accompagnato dalla band. Fu una fortuna per i presenti, che poterono godere di un concerto assolutamente sorprendente, in cui la densità del suono, sperimentale ed oscuro ma alla portata di chi ama la musica e si incuriosisce senza perdersi in steccati, non frenava l’impatto ritmico della musica degli Anatrofobia, su innesti frammentati di basso e sax e trame circolari e melmose. Moderna avanguardia italiana senza compromessi: notevole.
Gli Anatrofobia, dopo “Le cose non parlano”, hanno inciso altri due ottimi dischi, “Tesa musica marginale” (2004) e “Brevi momenti di presenza” (2007), entrambi con la meritoria label Wallace. Dopodiché, Luca Cartolari ha continuato con altri progetti molto interessanti, confermando una coerente e confortante tendenza alla sperimentazione libera.
Con molto piacere, cosa che avevo in mente da molto tempo, contatto Luca Cartolari per un’intervista (quella che probabilmente avrei fatto nel 2002 ed eccola qui.
LDP: Luca, partiamo innanzitutto con una domanda ovvia: possiamo aspettarci ancora qualcosa sotto il moniker Anatrofobia? Oppure ci sono altre strade aperte, altri progetti?
LC: Anatrofobia è il gruppo della mia vita. Sono legatissimo a mio fratello Alessandro e ad Andrea, che è il mio fratello adottivo. Siamo stati fermi per alcuni anni. Ora, da alcuni mesi, abbiamo ripreso a comporre e a provare. A Marzo, probabilmente faremo nuovamente qualche concerto. Oltre ad Anatrofobia, con Alessandro, suono anche in un trio di libera improvvisazione con Ruggero Radaele, batterista, pittore e scultore originalissimo, e soprattutto amico e persona che stimo profondamente.
LDP: Mi racconti come è nato il tuo amore per la musica, le tue prime influenze, quale è stato il percorso che ti ha portato a fondare Anatrofobia?
LC: In realtà Anatrofobia è stato fondato da Andrea ed Alessandro, insieme al bassista Pier Bussetti nei primi anni '90. Dopo il mio ingresso e quindi un periodo di alcuni anni (dal '93 al '95 se non mi ricordo male) con due bassisti, Anatrofobia ha preso la fisionomia attuale: un trio laboratorio aperto alle collaborazioni più curiose e disparate. Per quanto riguarda l'amore per la musica, lo devo sicuramente a mio padre, che ho perso purtroppo alla fine della mia adolescenza. E' stato lui ad insegnarmi i primi accordi alla chitarra e a regalarmi il mio primo basso elettrico giocattolo: un “Elvis”.
LDP: Con la band hai usato prevalentemente il basso fretless. Perché questa scelta? Preferisci il fretless ancora oggi?
LC: Sì, il basso fretless è ancora oggi il mio strumento. In futuro spero però di potermi permettere anche un basso coi tasti con un suono altrettanto bello del mio Streamer Warwick. Adoro il suono slap funky e l'unico limite che vedo nel mio fretless è proprio quello di non poter riuscire ad ottenere un suono, almeno ogni tanto, tipo quello di certi dischi della Disco anni '70-'80. Del resto mi piace molto ballare, anche e soprattutto la musica degli Earth Wind and Fire o quella del Micheal Jackson di “Off the Wall”.
LDP: Come consideri, a diciotto anni dall’uscita del primo lavoro degli Anatrofobia, il percorso della band? Quali sono state le maggiori difficoltà? Il mercato italiano, intendendo quello “altro” e non “mainstream”, era pronto ad un gruppo come il vostro? Avete incontrato resistenza e… fatto resistenza?
LC: Come ti dicevo all'inizio, Anatrofobia è parte importante della mia vita. Una cosa così importante trova linfa e vita al di là di come venga recepito dagli altri. Sinceramente non è mai stato, né tuttora è un mio problema sapere se la nostra musica venga o non venga recepita. Suoniamo perchè ci interessa farlo e ci rivolgiamo con onestà e apertura a tutti coloro che desiderano perdere un po' del loro tempo ad ascoltarci. Con la musica non mi interessa guadagnare né del resto ho la preparazione per farlo. Riuscire a creare musica con due persone che amo, è un dono meraviglioso in sé, il resto non conta proprio nulla.
LDP: Al di là delle prime influenze di cui ti ho già chiesto, ad oggi quali sono gli artisti di riferimento per te, naturalmente comprendendo anche altre arti e discipline?
LC: Ascolto tantissima musica: musica rock, jazz, classica, contemporanea, occidentale, orientale, improvvisata, scritta, tradizionale, da ballo o da meditazione, per il corpo o per la mente, da ascoltare in macchina o in una sala da concerto, per far l'amore o per correre in mezzo ad un bosco. C'è così tanta bella musica al mondo! Insomma perdonami ma non vorrei fornirti un lungo elenco di nomi, che alla fine lascia il tempo che trova.
LDP: Impossibile definire realmente la musica che avete prodotto, anche se è stata ascritta al free jazz e al jazz core. Ma gruppi come gli Anatrofobia hanno sempre avuto una valenza di ribellione alla generale piattezza di certo alt rock addomesticato e ruffiano; per inciso, io vi trovavo molto punk… come vedi la situazione della musica in Italia al momento? È ancora possibile rigenerare le opportune “sacche di diversità”?
LC: Hai assolutamente ragione siamo molto, molto punk! Siamo un gruppo che ama profondamente la musica, ma ha alla fin fine abbiamo un approccio naif. Ci teniamo molto ad essere spontanei e sinceri, anche ingenui. Preservare questa attitudine non è ovviamente a costo zero. Ad esempio bisogna essere pronti a non riuscire a trovare dei posti dove poter far ascoltare la propria musica. Non si può pretendere di essere autonomi e nello stesso piacioni!
LDP: Dopo l’uscita dell’ultimo Anatrofobia, che tipo di progetti stai perseguendo? Hai mai considerato l’uscita di un disco solista, magari di solo basso ed electronics?
LC: No... Anche se mia moglie Sara mi chiedeva spesso di incidere qualche cosa solo per lei, con basso ed elettronica, per le sue pratiche meditative e yoga.
LDP: Tu suoni il basso, uno strumento che ha avuto una sua emancipazione da Pastorius in poi, ma che proprio per questo, per una sorta di compulsivo recupero di ruolo e di portata, è finito spesso nel calderone del più vacuo virtuosismo. Tu sei bassista ma anche compositore e soprattutto musicista a tutto tondo, che uso intendi per il tuo strumento?
LC: Grazie per il “musicista a tutto tondo”, ma non lo sono .. in effetti... Non ho una preparazione musicale “professionale”. Amo la musica, la studio, l'approfondisco e mi esercito con disciplina, ma i musicisti a “tutto tondo” sono altri. Per quanto riguarda il basso elettrico, cerco di studiare quello che la tradizione mi ha consegnato e nel limite dei miei molti limiti lavorarci con inventiva e originalità. In ogni caso ritengo la tecnica strumentale importante anche se non essenziale per essere dei musicisti o dei bassisti che val la pena ascoltare. La musica in ogni caso non è mai accademia. Così come del resto senza un approfondimento tecnico, certi suoni non si riescono proprio fisicamente a produrre nel modo corretto.
LDP: A questo proposito, al di là del gusto musicale esteso, quali sono i bassisti che preferisci e che ti hanno dato di più? Ci sono dei bassisti jazz e avant che sono stati per te numi tutelari? Immagino tu possa citare anche dei contrabbassisti, me lo aspetto… sbaglio?
LC: Mi limito a citare due classici, per me tutt'ora importantissimi: Jaco Pastorius e Mick Karn, entrambi, come si sa, bassisti fretless.
LDP: Oltre la musica, di cosa ti occupi, cosa ti appassiona?
LC: Sono appassionato di filosofia e vivo facendo il softwarista ( sono un appassionato di software libero) ... In generale amo la natura, la vita, anche se occorre avere la forza per non farsi travolgere dalla sua crudele brutalità.
DISCOGRAFIA LUCA CARTOLARI
Anatrofobia : Dal Vivo 21/06/97 (tape) 1997
Anatrofobia : Frammenti Di Durata 1997
Anatrofobia : Concerto Agosto 1997
Anatrofobia : Ruote Che Girano A Vuoto 1999
Anatrofobia : Uno Scoiattolo In Mezzo Ad Un’Autostrada 2001
Anatrofobia : Lecosenonparlano 2002
Anatrofobia : Tesa Musica Marginale 2004
Anatrofobia : Brevi Momenti Di Presenza 2007
COLLABORAZIONI:
per amirani records
easilence | Cono di ombra e luce 2008
----------------
Per setola di maiale
1999) Setoladimaiale Unit “Live 48th Biennale di Venezia” SM470 (Alessandro Cartolari, Dominik Gawara, Paolo Caleo, Maurizio Suppo, Ivan Pilat, Daniele Pagliero, Luca Cartolari, Michele Brieda, Stefano Giust)
1999) Setoladimaiale Unit “Live 48th Biennale di Venezia” SMVID002 (Alessandro Cartolari, Dominik Gawara, Paolo Caleo, Maurizio Suppo, Ivan Pilat, Daniele Pagliero, Luca Cartolari, Michele Brieda, Stefano Giust) video VHS
1999) Margine “Orwell plus 15″ SM430 (Alessandro Cartolari, Luca Cartolari, Andrea Biondello, S.Giust)
1998) Margine “Ma” SM370 (Alessandro Cartolari, Luca Cartolari, Andrea Biondello, Stefano Giust) tape
1998) Margine “Esplendor Lunare (parte 1-2)” SM300 (Alessandro Cartolari, Luca Cartolari, Paolo De Piaggi, Stefano Giust)
1997) Margine “S/T” SM260/270 (Alessandro Cartolari, Luca Cartolari, Andrea Biondello, Stefano Giust) double tape
Mi piacquero così tanto, gli Anatrofobia, che li segnalai con entusiasmo al mio editore per organizzare degli incontri musica/scrittura, dovevo presentare il mio primo libro e volevo che andasse tutto bene. Ho incontrato dal vivo la band solo a Genova, alla presentazione del mio libro alla Fnac, nel 2005, ed il mio ricordo si ferma alla perfetta esecuzione della band di parte del repertorio recente. Al sottoscritto giocò un brutto tiro la disorganizzazione del luogo e certamente l’emozione, per cui smisi presto di declamare spezzoni del mio libro accompagnato dalla band. Fu una fortuna per i presenti, che poterono godere di un concerto assolutamente sorprendente, in cui la densità del suono, sperimentale ed oscuro ma alla portata di chi ama la musica e si incuriosisce senza perdersi in steccati, non frenava l’impatto ritmico della musica degli Anatrofobia, su innesti frammentati di basso e sax e trame circolari e melmose. Moderna avanguardia italiana senza compromessi: notevole.
Gli Anatrofobia, dopo “Le cose non parlano”, hanno inciso altri due ottimi dischi, “Tesa musica marginale” (2004) e “Brevi momenti di presenza” (2007), entrambi con la meritoria label Wallace. Dopodiché, Luca Cartolari ha continuato con altri progetti molto interessanti, confermando una coerente e confortante tendenza alla sperimentazione libera.
Con molto piacere, cosa che avevo in mente da molto tempo, contatto Luca Cartolari per un’intervista (quella che probabilmente avrei fatto nel 2002 ed eccola qui.
LDP: Luca, partiamo innanzitutto con una domanda ovvia: possiamo aspettarci ancora qualcosa sotto il moniker Anatrofobia? Oppure ci sono altre strade aperte, altri progetti?
LC: Anatrofobia è il gruppo della mia vita. Sono legatissimo a mio fratello Alessandro e ad Andrea, che è il mio fratello adottivo. Siamo stati fermi per alcuni anni. Ora, da alcuni mesi, abbiamo ripreso a comporre e a provare. A Marzo, probabilmente faremo nuovamente qualche concerto. Oltre ad Anatrofobia, con Alessandro, suono anche in un trio di libera improvvisazione con Ruggero Radaele, batterista, pittore e scultore originalissimo, e soprattutto amico e persona che stimo profondamente.
LDP: Mi racconti come è nato il tuo amore per la musica, le tue prime influenze, quale è stato il percorso che ti ha portato a fondare Anatrofobia?
LC: In realtà Anatrofobia è stato fondato da Andrea ed Alessandro, insieme al bassista Pier Bussetti nei primi anni '90. Dopo il mio ingresso e quindi un periodo di alcuni anni (dal '93 al '95 se non mi ricordo male) con due bassisti, Anatrofobia ha preso la fisionomia attuale: un trio laboratorio aperto alle collaborazioni più curiose e disparate. Per quanto riguarda l'amore per la musica, lo devo sicuramente a mio padre, che ho perso purtroppo alla fine della mia adolescenza. E' stato lui ad insegnarmi i primi accordi alla chitarra e a regalarmi il mio primo basso elettrico giocattolo: un “Elvis”.
LDP: Con la band hai usato prevalentemente il basso fretless. Perché questa scelta? Preferisci il fretless ancora oggi?
LC: Sì, il basso fretless è ancora oggi il mio strumento. In futuro spero però di potermi permettere anche un basso coi tasti con un suono altrettanto bello del mio Streamer Warwick. Adoro il suono slap funky e l'unico limite che vedo nel mio fretless è proprio quello di non poter riuscire ad ottenere un suono, almeno ogni tanto, tipo quello di certi dischi della Disco anni '70-'80. Del resto mi piace molto ballare, anche e soprattutto la musica degli Earth Wind and Fire o quella del Micheal Jackson di “Off the Wall”.
LDP: Come consideri, a diciotto anni dall’uscita del primo lavoro degli Anatrofobia, il percorso della band? Quali sono state le maggiori difficoltà? Il mercato italiano, intendendo quello “altro” e non “mainstream”, era pronto ad un gruppo come il vostro? Avete incontrato resistenza e… fatto resistenza?
LC: Come ti dicevo all'inizio, Anatrofobia è parte importante della mia vita. Una cosa così importante trova linfa e vita al di là di come venga recepito dagli altri. Sinceramente non è mai stato, né tuttora è un mio problema sapere se la nostra musica venga o non venga recepita. Suoniamo perchè ci interessa farlo e ci rivolgiamo con onestà e apertura a tutti coloro che desiderano perdere un po' del loro tempo ad ascoltarci. Con la musica non mi interessa guadagnare né del resto ho la preparazione per farlo. Riuscire a creare musica con due persone che amo, è un dono meraviglioso in sé, il resto non conta proprio nulla.
LDP: Al di là delle prime influenze di cui ti ho già chiesto, ad oggi quali sono gli artisti di riferimento per te, naturalmente comprendendo anche altre arti e discipline?
LC: Ascolto tantissima musica: musica rock, jazz, classica, contemporanea, occidentale, orientale, improvvisata, scritta, tradizionale, da ballo o da meditazione, per il corpo o per la mente, da ascoltare in macchina o in una sala da concerto, per far l'amore o per correre in mezzo ad un bosco. C'è così tanta bella musica al mondo! Insomma perdonami ma non vorrei fornirti un lungo elenco di nomi, che alla fine lascia il tempo che trova.
LDP: Impossibile definire realmente la musica che avete prodotto, anche se è stata ascritta al free jazz e al jazz core. Ma gruppi come gli Anatrofobia hanno sempre avuto una valenza di ribellione alla generale piattezza di certo alt rock addomesticato e ruffiano; per inciso, io vi trovavo molto punk… come vedi la situazione della musica in Italia al momento? È ancora possibile rigenerare le opportune “sacche di diversità”?
LC: Hai assolutamente ragione siamo molto, molto punk! Siamo un gruppo che ama profondamente la musica, ma ha alla fin fine abbiamo un approccio naif. Ci teniamo molto ad essere spontanei e sinceri, anche ingenui. Preservare questa attitudine non è ovviamente a costo zero. Ad esempio bisogna essere pronti a non riuscire a trovare dei posti dove poter far ascoltare la propria musica. Non si può pretendere di essere autonomi e nello stesso piacioni!
LDP: Dopo l’uscita dell’ultimo Anatrofobia, che tipo di progetti stai perseguendo? Hai mai considerato l’uscita di un disco solista, magari di solo basso ed electronics?
LC: No... Anche se mia moglie Sara mi chiedeva spesso di incidere qualche cosa solo per lei, con basso ed elettronica, per le sue pratiche meditative e yoga.
LDP: Tu suoni il basso, uno strumento che ha avuto una sua emancipazione da Pastorius in poi, ma che proprio per questo, per una sorta di compulsivo recupero di ruolo e di portata, è finito spesso nel calderone del più vacuo virtuosismo. Tu sei bassista ma anche compositore e soprattutto musicista a tutto tondo, che uso intendi per il tuo strumento?
LC: Grazie per il “musicista a tutto tondo”, ma non lo sono .. in effetti... Non ho una preparazione musicale “professionale”. Amo la musica, la studio, l'approfondisco e mi esercito con disciplina, ma i musicisti a “tutto tondo” sono altri. Per quanto riguarda il basso elettrico, cerco di studiare quello che la tradizione mi ha consegnato e nel limite dei miei molti limiti lavorarci con inventiva e originalità. In ogni caso ritengo la tecnica strumentale importante anche se non essenziale per essere dei musicisti o dei bassisti che val la pena ascoltare. La musica in ogni caso non è mai accademia. Così come del resto senza un approfondimento tecnico, certi suoni non si riescono proprio fisicamente a produrre nel modo corretto.
LDP: A questo proposito, al di là del gusto musicale esteso, quali sono i bassisti che preferisci e che ti hanno dato di più? Ci sono dei bassisti jazz e avant che sono stati per te numi tutelari? Immagino tu possa citare anche dei contrabbassisti, me lo aspetto… sbaglio?
LC: Mi limito a citare due classici, per me tutt'ora importantissimi: Jaco Pastorius e Mick Karn, entrambi, come si sa, bassisti fretless.
LDP: Oltre la musica, di cosa ti occupi, cosa ti appassiona?
LC: Sono appassionato di filosofia e vivo facendo il softwarista ( sono un appassionato di software libero) ... In generale amo la natura, la vita, anche se occorre avere la forza per non farsi travolgere dalla sua crudele brutalità.
DISCOGRAFIA LUCA CARTOLARI
Anatrofobia : Dal Vivo 21/06/97 (tape) 1997
Anatrofobia : Frammenti Di Durata 1997
Anatrofobia : Concerto Agosto 1997
Anatrofobia : Ruote Che Girano A Vuoto 1999
Anatrofobia : Uno Scoiattolo In Mezzo Ad Un’Autostrada 2001
Anatrofobia : Lecosenonparlano 2002
Anatrofobia : Tesa Musica Marginale 2004
Anatrofobia : Brevi Momenti Di Presenza 2007
COLLABORAZIONI:
per amirani records
easilence | Cono di ombra e luce 2008
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Per setola di maiale
1999) Setoladimaiale Unit “Live 48th Biennale di Venezia” SM470 (Alessandro Cartolari, Dominik Gawara, Paolo Caleo, Maurizio Suppo, Ivan Pilat, Daniele Pagliero, Luca Cartolari, Michele Brieda, Stefano Giust)
1999) Setoladimaiale Unit “Live 48th Biennale di Venezia” SMVID002 (Alessandro Cartolari, Dominik Gawara, Paolo Caleo, Maurizio Suppo, Ivan Pilat, Daniele Pagliero, Luca Cartolari, Michele Brieda, Stefano Giust) video VHS
1999) Margine “Orwell plus 15″ SM430 (Alessandro Cartolari, Luca Cartolari, Andrea Biondello, S.Giust)
1998) Margine “Ma” SM370 (Alessandro Cartolari, Luca Cartolari, Andrea Biondello, Stefano Giust) tape
1998) Margine “Esplendor Lunare (parte 1-2)” SM300 (Alessandro Cartolari, Luca Cartolari, Paolo De Piaggi, Stefano Giust)
1997) Margine “S/T” SM260/270 (Alessandro Cartolari, Luca Cartolari, Andrea Biondello, Stefano Giust) double tape
luca de pasquale 2015
Ho sempre pensato che i giganti rock del passato, ed in particolare degli anni settanta, non siano scesi tra di noi invano. Questa convinzione ha però delle fondamenta profondamente rock (molto più che progressive) ed è nel rock, con tutta la sua forza espressiva, che incontrai qualche anno fa Andrea Castelli e il suo basso.
In quel periodo stavo approfondendo il metal italiano, e mi trovavo sul versante Strana Officina; fu naturale incuriosirmi dello spin-off dei fratelli Cappanera, Fabio e Roberto, purtroppo tragicamente scomparsi in un incidente stradale il 23 luglio 1993.
In quel disco, “Non c’è più mondo”, trovai il preciso basso di Andrea, che mi colpì.
Naturalmente Andrea ha inciso con molti artisti, entrando sempre in profondità con il suo basso fretless nel tessuto sonoro, senza perdere per questo in potenza e smentendo l’antico assunto/luogo comune circa l’eccessiva melodicità del fretless in ambito rock.
Troviamo Andrea in gruppi come gli Shabby Trick (street hard rock’n’roll), i Mantra con Gianluca Galli potenti e assolutamente da riscoprire) e nel progetto Silver Horses, che nel primo disco eponimo hanno annoverato il leggendario Tony Martin, già singer potentissimo di una delle più recenti incarnazioni dei Black Sabbath.
Andrea preferisce, come ci dirà nell’intervista, lavorare in gruppo e dare il suo contributo, ma il suo potenziale bassistico è alto; non fatico a pensare che in un paese musicalmente meno provinciale del nostro (e con più etichette discografiche in piedi) gli verrebbe richiesta (ma anche imposta…) un’attività solista da virtuoso quale è e come possiamo intuire anche nello strumentale “Planet time” presente nel suo (finora) unico disco solista. Non a caso Andrea ed io ci troviamo a citare il grande Tony Franklin (Blue Murder, Firm, Derek Sherinian) e Randy Coven, uno dei bassisti più criminalmente sottovalutati della storia del rock (ascoltare “Funk me tender” e “Sammy says ouch!” per credere Per intanto, Andrea è al lavoro sul secondo album dei Silver Horses, e questa è certamente un’ottima notizia.
È, in conclusione, un doppio piacere incontrare Andrea per quest’intervista, perché si può così conoscere un orgoglio del basso elettrico italiano ed un musicista fedele ai suoi principi, alle sue inclinazioni e al profondo sentire di quella parola, rock, che significherà sempre qualcosa di più di tutte le definizioni passeggere e di comodo.
LDP: Innanzitutto, ci parli dei tuoi inizi? Quando hai cominciato e come è nata la scelta del basso elettrico?
A.C.: Nel 1970 iniziai a strimpellare la chitarra di mio fratello, fu lui a consigliarmi di imparare a suonare il basso (per me strumento sconosciuto) così avremmo potuto suonare insieme in un complesso così si diceva per indicare una band....ehehe). Allora iniziai a prendere lezioni private e mi iscrissi al conservatorio di contrabbasso che abbandonai dopo un anno.
LDP: Hai un suono molto riconoscibile, molto denso. Come hai elaborato nel corso del tempo il tuo sound?
A.C.: Secondo me il suono del basso deve reggere l'impalcatura ritmica ma al tempo stesso essere riconoscibile e ben udibile nota per nota, poi suonando con le dita ed amando i suoni medi viene fuori questo suono che poi e' comune a molti altri colleghi. Non ho inventato nulla :-)
LDP: È evidente un tuo rapporto molto stretto con il basso fretless, sul quale sei sempre stato molto espressivo. Lo preferisci al fretted o scegli a seconda del contesto e delle necessità?
A.C.: Suono quasi sempre con il fretless, mi pace molto di più. In alcuni casi (con gli Shabby Trick ad esempio) suono fretted ed anche con il plettro perché il genere street richiede un attacco ed una presenza maggiore.
LDP: A questo proposito, negli anni la scena hard e metal ha avuto un’impennata di bassisti squisitamente fretless, che hanno arricchito e rimodellato il ruolo del basso in un genere che la gente non riconosceva come ideale proscenio per i bassisti. Tony Franklin, Steve DiGiorgio, Jeroen Paul Thesseling e molti altri imperversano, sono bassisti che ti interessano, ti piacciono?
A.C.: Mi piace molto Tony Franklin perché suona una musica a me più affine e congeniale, il classic hard rock. Gli altri due che hai nominato, pur apprezzandoli molto non li seguo per via del genere.
Amo particolarmente tutto ciò che ha fatto Jaco Pastorius ed i suoi degni eredi, Pino Palladino su tutti.
LDP: Restando collegati ai tuoi gusti, quali sono i bassisti e i musicisti in genere che ti hanno ispirato e che preferisci (o continui a preferire) al momento?
A.C.: Come sopra seguo Tony Franklin, Pino Palladino, Michael Manring, Dave Larue, Marco Mendoza e sono ancora sconvolto per la morte di Randy Coven....
LDP: Hai inciso un bel disco solista, “Planet Time”, che ho la fortuna di possedere. Che ricordo hai di quell’esperienza, ne sei soddisfatto? Hai mai pensato di bissare con un altro progetto solitario?
A.C.: Incisi “Planet Time” in un periodo che non avevo band e mi feci aiutare da molti amici musicisti, purtroppo il mixaggio finale ha rovinato il prodotto, ma ormai è andata. Preferisco suonare in gruppi ed avere la collaborazione fattiva degli altri, ma mai dire mai....chissa'
LDP: Con quali artisti ed in quali contesti ti sei sentito più a tuo agio? Quali sono le incisioni che ricordi più volentieri?
A.C.: Con il chitarrista Gianluca Galli ho un rapporto bellissimo di amicizia e di collaborazione musicale, con lui abbiamo inciso nei mantra due bellissimi dischi e continuiamo la collaborazione con i Silver Horses. Tutte le incisioni sono bei ricordi perché sono l'espressione artistica di un momento specifico.
LDP: Progetti attuali e futuri: ce ne parli?
A.C.: Attualmente con Gianluca stiamo lavorando al secondo disco dei Silver Horses, poi ho un power trio tributo a Rory Gallagher che mi diverte moltissimo.
LDP: Che strumentazione usi attualmente?
A.C.: Uso bassi Musicman Sabre e Precision come ampli ho Ampeg, cassa D 8 coni e testata SVT4.
LDP: La musica “solida” è in crisi, i negozi di dischi chiudono, le etichette non rischiano, alcuni album sono disponibili solo come download, si sta consolidando il sistema del crowdfounding. Come ti poni e cosa pensi rispetto a questo? Sei pessimista, credi che il supporto “disco” scomparirà?
A.C.: Spero proprio di no, io da collezionista amo avere il disco in mano, con la sua storia, la copertina ecc.. Credo fortemente, e spero che non scomparirà!!
©Luca De Pasquale 2014
In collaborazione con Manuela Avino
DISCOGRAFIA:
MANTRA:
Hate Box (Horus Music)
Hard Times (Horus Music)
SHABBY TRICK:
Badass (Cult'n'Roses) e ristampato da Jolly Rogers
RnR Raiser (Horus Music)
CAPPANERA:
Non c'e' piu' mondo (Minotauro records)
Cuore blues rock'n'roll (Jolly Rogers rec.)
AIRSPEED:
omonimo (Jolly Rogers rec.)
SILVER HORSES:
omonimo (7hard rec.)
ANDREA CASTELLI (solo album):
Planet time (99th floor)
VICOLO MARGANA:
A perfect life
GIANLUCA GALLI:
Back Home (Horus Music)
Evolution Revolution (Horus Music)
MATT CAFISSI
All the little things (GC records)
Heat of Emotion (Level's productions)
In quel periodo stavo approfondendo il metal italiano, e mi trovavo sul versante Strana Officina; fu naturale incuriosirmi dello spin-off dei fratelli Cappanera, Fabio e Roberto, purtroppo tragicamente scomparsi in un incidente stradale il 23 luglio 1993.
In quel disco, “Non c’è più mondo”, trovai il preciso basso di Andrea, che mi colpì.
Naturalmente Andrea ha inciso con molti artisti, entrando sempre in profondità con il suo basso fretless nel tessuto sonoro, senza perdere per questo in potenza e smentendo l’antico assunto/luogo comune circa l’eccessiva melodicità del fretless in ambito rock.
Troviamo Andrea in gruppi come gli Shabby Trick (street hard rock’n’roll), i Mantra con Gianluca Galli potenti e assolutamente da riscoprire) e nel progetto Silver Horses, che nel primo disco eponimo hanno annoverato il leggendario Tony Martin, già singer potentissimo di una delle più recenti incarnazioni dei Black Sabbath.
Andrea preferisce, come ci dirà nell’intervista, lavorare in gruppo e dare il suo contributo, ma il suo potenziale bassistico è alto; non fatico a pensare che in un paese musicalmente meno provinciale del nostro (e con più etichette discografiche in piedi) gli verrebbe richiesta (ma anche imposta…) un’attività solista da virtuoso quale è e come possiamo intuire anche nello strumentale “Planet time” presente nel suo (finora) unico disco solista. Non a caso Andrea ed io ci troviamo a citare il grande Tony Franklin (Blue Murder, Firm, Derek Sherinian) e Randy Coven, uno dei bassisti più criminalmente sottovalutati della storia del rock (ascoltare “Funk me tender” e “Sammy says ouch!” per credere Per intanto, Andrea è al lavoro sul secondo album dei Silver Horses, e questa è certamente un’ottima notizia.
È, in conclusione, un doppio piacere incontrare Andrea per quest’intervista, perché si può così conoscere un orgoglio del basso elettrico italiano ed un musicista fedele ai suoi principi, alle sue inclinazioni e al profondo sentire di quella parola, rock, che significherà sempre qualcosa di più di tutte le definizioni passeggere e di comodo.
LDP: Innanzitutto, ci parli dei tuoi inizi? Quando hai cominciato e come è nata la scelta del basso elettrico?
A.C.: Nel 1970 iniziai a strimpellare la chitarra di mio fratello, fu lui a consigliarmi di imparare a suonare il basso (per me strumento sconosciuto) così avremmo potuto suonare insieme in un complesso così si diceva per indicare una band....ehehe). Allora iniziai a prendere lezioni private e mi iscrissi al conservatorio di contrabbasso che abbandonai dopo un anno.
LDP: Hai un suono molto riconoscibile, molto denso. Come hai elaborato nel corso del tempo il tuo sound?
A.C.: Secondo me il suono del basso deve reggere l'impalcatura ritmica ma al tempo stesso essere riconoscibile e ben udibile nota per nota, poi suonando con le dita ed amando i suoni medi viene fuori questo suono che poi e' comune a molti altri colleghi. Non ho inventato nulla :-)
LDP: È evidente un tuo rapporto molto stretto con il basso fretless, sul quale sei sempre stato molto espressivo. Lo preferisci al fretted o scegli a seconda del contesto e delle necessità?
A.C.: Suono quasi sempre con il fretless, mi pace molto di più. In alcuni casi (con gli Shabby Trick ad esempio) suono fretted ed anche con il plettro perché il genere street richiede un attacco ed una presenza maggiore.
LDP: A questo proposito, negli anni la scena hard e metal ha avuto un’impennata di bassisti squisitamente fretless, che hanno arricchito e rimodellato il ruolo del basso in un genere che la gente non riconosceva come ideale proscenio per i bassisti. Tony Franklin, Steve DiGiorgio, Jeroen Paul Thesseling e molti altri imperversano, sono bassisti che ti interessano, ti piacciono?
A.C.: Mi piace molto Tony Franklin perché suona una musica a me più affine e congeniale, il classic hard rock. Gli altri due che hai nominato, pur apprezzandoli molto non li seguo per via del genere.
Amo particolarmente tutto ciò che ha fatto Jaco Pastorius ed i suoi degni eredi, Pino Palladino su tutti.
LDP: Restando collegati ai tuoi gusti, quali sono i bassisti e i musicisti in genere che ti hanno ispirato e che preferisci (o continui a preferire) al momento?
A.C.: Come sopra seguo Tony Franklin, Pino Palladino, Michael Manring, Dave Larue, Marco Mendoza e sono ancora sconvolto per la morte di Randy Coven....
LDP: Hai inciso un bel disco solista, “Planet Time”, che ho la fortuna di possedere. Che ricordo hai di quell’esperienza, ne sei soddisfatto? Hai mai pensato di bissare con un altro progetto solitario?
A.C.: Incisi “Planet Time” in un periodo che non avevo band e mi feci aiutare da molti amici musicisti, purtroppo il mixaggio finale ha rovinato il prodotto, ma ormai è andata. Preferisco suonare in gruppi ed avere la collaborazione fattiva degli altri, ma mai dire mai....chissa'
LDP: Con quali artisti ed in quali contesti ti sei sentito più a tuo agio? Quali sono le incisioni che ricordi più volentieri?
A.C.: Con il chitarrista Gianluca Galli ho un rapporto bellissimo di amicizia e di collaborazione musicale, con lui abbiamo inciso nei mantra due bellissimi dischi e continuiamo la collaborazione con i Silver Horses. Tutte le incisioni sono bei ricordi perché sono l'espressione artistica di un momento specifico.
LDP: Progetti attuali e futuri: ce ne parli?
A.C.: Attualmente con Gianluca stiamo lavorando al secondo disco dei Silver Horses, poi ho un power trio tributo a Rory Gallagher che mi diverte moltissimo.
LDP: Che strumentazione usi attualmente?
A.C.: Uso bassi Musicman Sabre e Precision come ampli ho Ampeg, cassa D 8 coni e testata SVT4.
LDP: La musica “solida” è in crisi, i negozi di dischi chiudono, le etichette non rischiano, alcuni album sono disponibili solo come download, si sta consolidando il sistema del crowdfounding. Come ti poni e cosa pensi rispetto a questo? Sei pessimista, credi che il supporto “disco” scomparirà?
A.C.: Spero proprio di no, io da collezionista amo avere il disco in mano, con la sua storia, la copertina ecc.. Credo fortemente, e spero che non scomparirà!!
©Luca De Pasquale 2014
In collaborazione con Manuela Avino
DISCOGRAFIA:
MANTRA:
Hate Box (Horus Music)
Hard Times (Horus Music)
SHABBY TRICK:
Badass (Cult'n'Roses) e ristampato da Jolly Rogers
RnR Raiser (Horus Music)
CAPPANERA:
Non c'e' piu' mondo (Minotauro records)
Cuore blues rock'n'roll (Jolly Rogers rec.)
AIRSPEED:
omonimo (Jolly Rogers rec.)
SILVER HORSES:
omonimo (7hard rec.)
ANDREA CASTELLI (solo album):
Planet time (99th floor)
VICOLO MARGANA:
A perfect life
GIANLUCA GALLI:
Back Home (Horus Music)
Evolution Revolution (Horus Music)
MATT CAFISSI
All the little things (GC records)
Heat of Emotion (Level's productions)
luca de pasquale 2014
Ho conosciuto Giuseppe Di Spirito quando lavoravo in un piccolo ma storico negozio di dischi import, Demos. Ero agli inizi della mia carriera di “panda”, cominciavo a farmi le ossa in un mestiere che già si stava estinguendo. Giuseppe era uno di quei clienti gentili e taciturni che procedeva per suo conto, andando direttamente su quel che cercava, senza chiedere quasi nulla. Ebbi subito l’impressione, i venditori di dischi hanno un particolare occhio clinico, di trovarmi di fronte una persona molto competente e curiosa, nel senso più nobile, verso ogni forma di musica. Terminata la mia esperienza nell’import store, ho ritrovato Giuseppe come cliente ancora più veloce e determinato nel supermercato/grande distribuzione con smanie culturali dove ho trascorso un decennio per motivi prettamente alimentari. Anche lì, in un luogo dove ogni “stranezza” discografica sembrava un oltraggio agli dei e una perdita di tempo, nel tempio borghese e pantofolaio della lounge music da lampada abbronzante, Giuseppe riusciva a trovare pane per i suoi denti, andando a pescare –con mia incredulità- quei pochi titoli buoni che chissà come erano arrivati. Si trattava di progressive, spesso ma non sempre; conversando con Giuseppe ho scoperto una persona attenta a più aspetti della musica, dal rock classico all’hard rock, lo Zeuhl, il progressive moderno contaminato, e anche il jazz.
Del resto, io non sono un progster puro ed in Giuseppe trovavo un referente attendibilissimo; non so quante volte abbiamo parlato di Philippe Bussonnet dei Magma (e One Shot, NHX e via discorrendo)...
E così, accadeva che il commesso esperto cercava il confronto con il cliente esperto: in pratica, due amanti della musica non possono che incontrarsi in qualche luogo. Contatto Giuseppe per ottenere una voce autorevole sullo stato delle cose, prog e non solamente, come sempre.
Buona lettura.
LDP: Partiamo con una domanda di genere “sentimentale”, Peppe. Ci siamo conosciuti in un negozio di dischi… come vedi la situazione attuale? I negozi continuano a chiudere uno dopo l’altro, resistono solo piccoli posti storici, più che altro da Roma in su, ma sempre in cattive acque. Al momento a Napoli un vero negozio di dischi non c’è, almeno a mio avviso. Pensi che ormai ci tocchi comprare sui siti specifici e su piattaforme come Amazon?
GDS: Purtroppo la realtà dei fatti ci conferma che più passa il tempo più sembra conveniente orientarsi quasi esclusivamente su internet per l’acquisto di dischi e cd. Amazon, Ebay, Discogs, Bandcamp, i siti personali dei gruppi… Difficile entrare in quei pochi negozi di dischi rimasti e trovare nuovi lavori a prezzi più bassi che in rete. Da un punto di vista economico, quindi, i vantaggi sono enormi. Certo, però, è tutto molto più freddo. Si perde quel contatto che tu hai individuato nella tua introduzione. Si perde quel passare il tempo in negozio a scorrere tra i dischi disponibili alla ricerca di qualcosa che ti piace o di qualcosa che non ti aspettavi di trovare. Si va sul sicuro con l’ultima novità magari già preascoltata senza puntare ad approfondire le conoscenze di un passato che è sempre ricchissimo di gemme nascoste. E nel negozio di dischi si va ormai più per nostalgia, o per sperare di trovare qualcosa nell’usato, o, ancora, per puntare su quei cd in superofferte economiche.
LDP: Ci parli di come è iniziato il tuo amore per la musica e come lo vivi?
GDS: Mah, potrei partire dall’infanzia, attorniato dai dischi di musica classica che ascoltava mio padre e i 45 giri delle sigle dei cartoni animati che mi facevo regalare. Ma l’amore vero e proprio è arrivato in realtà piuttosto tardi, quando verso i sedici anni (era il 1990) un mio zio (che aveva vissuto la magia degli anni ’70) mi consiglio di vedere il concerto di Knebworth che davano in tv e a cui partecipavano un bel po’ di stelle del rock. Mi colpirono moltissimo Pink Floyd, Eric Clapton e Dire Straits. Cominciai a comprare dischi e cd, mi iniziai ad appassionare di quei gruppi che puntavano su composizioni lunghe, magari “strane”, piene di musica di assoli, con tante parti strumentali. Da lì al progressive rock il passo è stato breve e quando nel 1995, nel mitico negozio Demos a Napoli, scovai delle fanzine dedicate al prog, mi si aprì davanti un mondo nuovo e affascinante ed iniziai a desiderare di approfondire quanto più possibile questo filone musicale così ampio e complesso. Ancora oggi vivo questo amore cercando di scoprire i nuovi artisti, sempre tantissimi, che si affacciano nel panorama odierno e di cercare gli album del passato che magari non hanno fatto la storia come Genesis e Yes, ma che sono delle perle bellissime. Non si finisce mai di imparare… Apprezzo molto, ovviamente, anche altri generi, dal rock più classico dei ’60 e ’70 al jazz, passando per la fusion, per il folk, per il dark dei Cure, per il pop di qualità, in passato anche per il metal e tanto altro, sempre con la voglia di ampliare conoscenze e collezione di continuo.
LDP: Faccio outing e ti dico che sono partito non dai Genesis ma dai Marillion, per questioni meramente anagrafiche; e che sono finito presto nel prog metal per amore dell’hard (e in minima parte per il virtuosismo. Come vedi, tu che sei totalmente addentro alla cosa, lo sviluppo dal primo prog al neo prog e le derive metalliche della commistione? Si è mantenuto un po’ dello spirito originario, nelle formazioni miste di oggi?
GDS: Il discorso qui si fa lungo. I Marillion hanno avuto il grande pregio di aver risvegliato l’attenzione verso un genere che all’inizio degli anni ’80 era dato ormai per morto. Ma allora, come nel decennio successivo e come oggi resistevano e si affacciavano un’infinità di nuove realtà di grande valore non certo supportate dai mass media. Parli di spirito originario, ma è difficile individuare con precisione di cosa si tratta. Ancora oggi ci sono pareri contrastanti su cosa è e cosa non è il prog. Di certo mi sento di dire che con il passare degli anni il prog più classico non è stato più solo “sostanza”, ma è diventato anche “forma”. Molte band nate con una forte passione verso i colossi del passato, dai Genesis ai King Crimson, dai Pink Floyd ai Camel, hanno provato ad emulare le strutture compositive e le sonorità di questi ultimi. Insomma, se a cavallo tra i ’60 e i ’70 si cercava “semplicemente” di andare oltre le canzoncine di 3-4 minuti con ritornello orecchiabile, negli ultimi 20-30 anni molti sono partiti con uno spirito di emulazione. Il prog quindi ha un po’ perso la sua natura di musica “di rottura”, anche se non sono mancati gruppi che, con grande abilità, sono comunque riusciti a lanciarsi in proposte cariche di contaminazioni, aperte e coraggiose, mostrando una personalità che ha permesso loro di realizzare opere che non possono certo definirsi delle copie carbone dei classici del genere. Per una band come gli After Crying, tanto per fare un esempio, è impossibile attribuire somiglianze precise. Hanno rielaborato certe cose dei King Crimson a modo loro, riuscendo a creare qualcosa di non derivativo.
Per quanto riguarda il prog-metal, onore ai Dream Theater che hanno trovato una nuova via estremizzando certe soluzioni già viste in passato tra hard-rock e Rush, ma è anche vero che alla lunga il genere ha mostrato un po’ di difetti e che solo pochi esponenti riescono a mantenere una qualità elevata (senza dimenticare gli equivoci che si sono creati con quegli appassionati, spesso giovani, che credono che il prog sia rappresentato solo da muscoli e tecnicismo esasperato e pensano quindi che Petrucci sia il miglior musicista della storia, alimentando atteggiamenti da fan con scarsa apertura mentale sia verso il passato sia verso le forme più interessanti del prog attuale).
LDP: A questo proposito, posso chiederti un parere su case discografiche come InsideOut, Sensory, Magna Carta, Kscope?
GDS: Non vorrei generalizzare, ma citi case discografiche che hanno contribuito abbastanza a distogliere l’attenzione dal meglio che offre il prog. A partire dalla metà degli anni ’90 queste label hanno ottenuto grandi attenzioni e pagine pubblicitarie su fanzine e su riviste metal. Ricordo perfettamente quando prima ancora dell’uscita dell’esordio degli Spock’s Beard questi ultimi venivano pubblicizzati come il miglior gruppo del mondo. Ora non voglio dire che si tratta di case discografiche che spingono artisti di scarsa qualità, anzi, anche io apprezzo molta della musica presente nei loro cataloghi (e gli ultimi lavori di Steven Wilson sono notevolissimi). Però il fatto che gli artisti che spingono ottengano enorme visibilità ha distolto spesso l’attenzione da altre realtà ben più interessanti. Dagli anni ’90 in poi case discografiche che non hanno avuto la stessa spinta pubblicitaria di quelle che hai citato (penso alla francese Musea, alle nostre storiche Mellow, Black Widow, Lizard e AMS, alla americana Cuneiform, all’ungherese Periferic) hanno sfornato gioielli spesso di ben più alto valore.
LDP:Il basso nel prog. Chi consideri essere stati i migliori dello strumento nel genere? Credi che neoprog e derivati abbiano lasciato più spazio allo strumento? Si può dire che John Myung esista grazie a Chris Squire?
GDS: So di essere banale, ma quando si parla di basso nel prog anche a me i primi nomi che vengono in mente sono quelli di Chris Squire e Geddy Lee. Certo, da appassionato di Magma e di zeuhl, mi esaltano forse di più musicisti straordinari del calibro di Jannick Top, Bernard Paganotti e Philippe Bussonet. Stiamo parlando di uno strumento bellissimo, ma che può restare un po’ in ombra agli ascoltatori più distratti. In alcuni casi (vedi proprio quello dei citati Magma, o degli Yes) il prog ha permesso anche di mandarlo in primo piano ed ergerlo a protagonista fondamentale e ben visibile nella musica. Non vedo nel neoprog e in genere nella musica degli ultimi 20-30 anni più spazio per lo strumento, anche se le eccezioni ci sono. Penso (e anche qui magari sono banale) a un Les Claypool che nei nineties con i Primus è riuscito a dare una piccola ventata di aria nuova in tal senso.
Chris Squire resta un fuoriclasse assoluto e molto amato e penso che non si cada in errore pensando che ¾ dei bassisti odierni (non solo Myung) gli debbano tantissimo. Poi se si ha voglia (e coraggio) di ascoltare qualcosa di diverso consiglio di andare ad ascoltare cosa riesce a combinare Philippe Bussonet con i Magma e con gli One Shot. Un mostro!
LDP: Come in tutti i generi di musica, c’è un approccio integralista anche al prog, molto spesso mi sono trovato al centro di vere e proprie filippiche contro il neo prog, contro l’ultimo periodo dei Genesis o degli Yes, oppure alla cruenta crociata contro Asia e Styx… tu sei uno dall’approccio molto aperto, come pensi si possa sfuggire alle ganasce della nostalgia integralista e aprirsi?
GDS: Io ho sempre avuto un atteggiamento molto aperto, anche se sicuramente, pur passando per uno a cui piace tutto, ci sono diverse cose che non mi convincono. E’ indubbio che gli anni ’80 per i gruppi storici siano stati quasi distruttivi e, salvo qualche eccezione, la qualità si è abbassata a livelli anche abissali.
Certo che per quanto riguarda l’approccio di chi ha vissuto i vari periodi del prog i problemi che si riscontrano sono molteplici. Molti dei “nostalgici” del periodo d’oro non vanno oltre gli anni ’70, è indubbio. Per loro è impensabile che esistano album che meritano di essere ascoltati a parte i classici. Altri ancora credono che il prog odierno sia solo il prog-metal. Altri si lasciano davvero influenzare enormemente dalle pubblicità e dalla spinta promozionale di alcune label e pensano di ascoltare grandissima musica di qualità solo perché si mantengono distanti dal pop radiofonico. Altri ancora se non ascoltano strutture consolidate del rock sinfonico non sono soddisfatti. Quindi non si tratta solo di nostalgia. La realtà è che nella maggior parte degli ascoltatori manca proprio la curiosità e questa mancanza è spesso abbinata a dei pregiudizi che non facilitano l’avvicinamento a musica di grande qualità. Ne ho lette tante nelle varie frequentazioni di forum e newgroup (e anche oggi su facebook). Restano dei “classici” le risate e la scarsa voglia di ascoltare gruppi fantastici come Bubu e Kultivator solo perché hanno il nome strano. O, similmente, ancora c’è la convinzione generale che il prog debba essere in qualche modo legato ai paesi anglosassoni o al massimo all’Italia. Già alcuni hanno difficoltà ad ascoltare il cantato in francese (non riuscendo ad apprezzare gruppi fantastici come Ange e Mona Lisa), figurati se fai presente che l’Indonesia ha una bellissima e interessante tradizione e che anche negli anni recenti ha dato i natali a diversi artisti estremamente validi.
LDP: Prog metal. Vorrei il tuo punto di vista sulla situazione attuale, sugli esponenti che preferisci e sugli orizzonti del movimento.
GDS: Ho amato molto e ancora oggi riesco ad apprezzare gruppi come Dream Theater e Fates Warning. Negli anni ’90 per un po’ ho provato ad ascoltare un bel po’ di cose offerte dal genere (ricordo con estremo piacere gli italianissimi Evil Wings, da molti dimenticati), ma a dire la verità in breve tempo l’interesse è un po’ scemato. Troppi gruppi interessati più ad imitare i Dream Theater e a cercare virtuosismi che altro. Troppi che puntano strani ibridi provando ad abbinare tecnica e orecchiabilità con risultati confusionari. Troppa forma, poca sostanza. E quel po’ che ho ascoltato negli anni recenti non mi è sembrato così brillante… Sicuramente curiosa e, a tratti, molto intrigante l’evoluzione degli Opeth.
LDP: Volevo una tua opinione sui Porcupine Tree, che da un po’ di tempo a questa parte sono diventati più “diffusi”; Steven Wilson è davvero un nuovo santone del prog, un recuperatore, un elaboratore della corrente storica del prog?
GDS: Anche qui il discorso è lungo e sotto certi aspetti non mi capacito di quanto interesse e successo abbiano avuto i Porcupine Tree peggiori. Sì, perché il progetto di Wilson, nei primi anni è stato davvero interessante. Non originalissimo, certo, ma quelle atmosfere floydiane, quel sound onirico, sospeso, quelle composizioni che si ampliavano e avvolgevano, avevano un gran fascino. Tutt’oggi reputo “The sky moves sideways” un gran bel disco. Fino a “Stupid dream” vale la pena ascoltare tutto. Dal successivo “Lightbulb sun” cominciano i problemi. Un mix secondo me non riuscito tra prog, pop e metal che è continuato con le produzioni successive (con qualche buona intuizione qua e là, specie con il colpo di coda “The incident”) e che ritengo abbastanza noioso e privo di mordente. Sto anche scoprendo che i loro fan sembrano tra i più chiusi mentalmente e che se gli tocchi il loro dio sono pronti ad andare su tutte le furie e a sbatterti fuori dai gruppi facebook J. Steven Wilson sembra un personaggio curioso… Ricordo le interviste dei primi anni coi Porcupine Tree in cui appariva addirittura infastidito quando vedeva che la sua musica veniva etichettata come prog. Sono passati quasi venticinque anni da quel periodo eppure mi sembra che ultimamente il buon Wilson nel prog ci abbia sguazzato per bene. Di sicuro ha dimostrato di essere un grandissimo produttore ed il lavoro fatto con i remixaggi dei dischi dei King Crimson è encomiabile. Santone di sicuro non lo è. E’ un bravo musicista, che ha saputo “vendersi”, che ha saputo trovare varie collaborazioni con colleghi d’eccezione e dal grande nome. Ad ogni modo mi ha colpito favorevolmente la sua evoluzione da solista dopo l’accantonamento dei Porcupine Tree. “Grace for drowning” e “The raven that refused to sing”, seppur non esattamente originali, sono stati due grandi album!
LDP: Se ti dico Anglagard, Anekdoten, se ti dico, e tu sei un’autorità in materia, “prog rock scandinavo” cosa ti verrebbe da dire d’impulso?
GDS: D’impulso mi viene da dire che soprattutto gli Anglagard sono stati tra i migliori esponenti degli anni ’90 e che gli Anekdoten hanno fatto ottime cose estremizzando il sound dei King Crimson del periodo ’73-’74. Ma anche qui si potrebbe approfondire di molto. I Landberk, che uscivano nello stesso periodo di questi due gruppi e che non hanno mai avuto la stessa considerazione erano davvero inferiori? Chi conosce a memoria la produzione degli Anglagard quanto conosce i “padri” svedesi che nei primi anni ’70 (a volte persino prima) sfornavano capolavori, vedi Bo Hansson, Trettioariga Kriget, Solar Plexus, Kaipa, Samla Mammas Manna, Flasket Brinner, Kvartetten Som Sprande? E quanti hanno ascoltato per bene il monumentale “Mind vol. 2” degli Isildurs Bane, uscito nel 2001 e che io reputo il più bel disco prog post anni ’70? E, ancora, mi vien da chiedere quanti estimatori di Anglagard e Anekdoten sono affetti da esterofilia e non si sono avvicinati a band italiane che forse meritano anche di più? Se un Fabio Zuffanti fosse nato in Svezia forse avrebbe ottenuto più successo qui in Italia…
LDP: Volendo giocare con una provocazione, cosa risponderesti a chi sostiene che “il prog è nostalgia”?
GDS: L’ho già accennato prima, spesso chi pensa qualcosa del genere parte troppo prevenuto pensando che non vale la pena ascoltare nulla uscito dopo il ’77, quando va bene. In realtà, si possono trovare tante bellissime cose ancora oggi, basterebbe avere la curiosità giusta di cercare, di ascoltare con attenzione e senza pregiudizi, di non voler fare a tutti i costi paragoni improponibili per vari motivi.
LDP: Tralasciando il gioco un po’ stantio e hornbyano delle top list, a quali artisti e dischi non rinunceresti mai? A quali artisti sei più debitore?
GDS: Eh, gran bella domanda… Mi piace troppa roba per dare una risposta precisa e limitata a pochi nomi. Sicuramente sono uno di quei rari casi che nutre un enorme amore verso gruppi estremamente diversi come Genesis e Magma. Altre grandissime passioni ci sono in particolare nei confronti dei vari King Crimson, PFM, Banco, Osanna, Balletto di Bronzo, Gentle Giant, Pink Floyd, Emerson, Lake & Palmer e verso la scuola canterburiana (ah, Robert Wyatt, i National Health e gli Hatfield and the North…) Ma non potrei mai rinunciare a Frank Zappa e a capolavori del jazz come “A love supreme”, “A kind of blue”, “Bitches brew” e “Jewels of thought”. Né ai Led Zeppelin e agli Allman Brothers, a Jeff Beck e a Jimi Hendrix, ai Beatles e ai Cream, a Sandy Denny e a John Martyn. E poi, parlando di prog, mi fa piacere citare artisti più recenti, che ho scoperto “in diretta” e che reputo a volte all’altezza dei classici, come Finisterre, After Crying, Isildurs Bane, DFA, Taal, White Willow o, ancora, alcuni fondamentali del passato provenienti da quelli che non sono considerati paesi di “prima fascia”, come i finlandesi Haikara, i polacchi SBB, gli olandesi Supersister e i cecoslovacchi Collegium Musicum e Blue Effect. E già mi vengono in mente altri nomi... Esiste talmente tanta musica buona…
LDP: Critica e letteratura musicale oggi in Italia. Credi abbia ancora senso? Cosa pensi di questa moda di autoproclamarsi esperti e critici? Devo dire che molti blog sono davvero scritti male, e che alcuni recensori sembrerebbero più adatti ai mosconi mondani… c’è il rischio concreto secondo te di scriversi addosso o di non essere letti con attenzione?
GDS: Altro discorso davvero complesso e da guardare da diversi punti di vista. Oggi si vuole e si può fare tutto e subito. Negli anni ’90, sulle fanzine, leggevi recensioni di dischi anche importanti usciti magari mesi (se non anni) prima. Oggi si arriva all’assurdo che leggi recensioni prima ancora che il disco esca. In questa situazione, per un disco che magari può essere considerato atteso e importante, che attendibilità ha una recensione immediata? Dischi di spessore dovrebbero essere ascoltati più e più volte per essere assimilati al meglio e per poter scrivere qualcosa al riguardo con una certa attendibilità.
Ancora, oggi chiunque può improvvisarsi critico musicale scaricando musica di ogni tipo e periodo, aprendo un blog o un sito e andando alla ricerca di materiale promozionale gratuito. Quanti di questi sono veramente “leali” al punto da stroncare un cd ricevuto in omaggio che merita la stroncatura? Quanti non si lasciano influenzare dalle pubblicità altisonanti delle case discografiche più potenti (potenza rapportata sempre al piccolo mondo del prog)?
Per di più, grazie agli sviluppi tecnologici, vengono pubblicati una marea di dischi con frequenza impressionante e le autoproduzioni sono numerosissime; diventa così difficile districarsi tra tante nuove uscite e si arriva al paradosso che davvero sembra ci siano più musicisti che ascoltatori. Allora a chi interessa di più una recensione? Al musicista o all’appassionato?
C’è ancora da dire che si leggono spesso articoli di molti critici che pensano più a mettersi in mostra scrivendo con paroloni e frasi ampollose, mostrando di saper scrivere in un italiano forbito, ma che poi non descrivono per bene il disco e alla fine viene da chiedersi “sì, ma se acquisto questo disco che cosa ascolterò?”.
Ma forse il problema più grave, insieme a delle situazioni fin troppo spesso amatoriali, è che chi scrive di prog non conosce a sufficienza la materia. Molti pensano che non bisogna conoscere per bene il prog per poter scrivere con credibilità, ma io non la vedo così. Avere una visione che sia più chiara possibile di quello che è stato il prog dalla seconda metà degli anni ’60 ad oggi aiuterebbe a capire meglio l’ampiezza del genere, la complessità della materia, permetterebbe di fare confronti, di capire l’importanza di scene nazionali diverse da quelle inglesi e italiane (oggi sembra quasi che si sia dimenticato quanto siano fondamentali i corrieri cosmici tedeschi!). Permetterebbe di evitare figuracce come quella di chi, recensendo “The rock” degli SBB pochi anni fa, parlò di terzo disco del gruppo, ignorando completamente una produzione sterminata che parte con un album datato 1974 e le collaborazioni precedenti con un altro grandissimo come Czeslaw Niemen.
Critica e letteratura hanno ancora senso, ma anche in questo caso, come nella musica, tutto sta a sapersi districare tra chi merita attenzione e chi no…
LDP: Quali i tuoi progetti per il futuro, musicali e non? Dove possiamo leggerti? C’è la possibilità che tu esca con un libro tutto tuo?
GDS: Un libro tutto mio mi piacerebbe molto, anche perché delle piccole idee che mi frullano nella testa ne ho già da un po’. I problemi sono due: uno è che non ho molto tempo a disposizione per dedicarmi a qualcosa del genere e l’altro è che non credo che ci siano editori (e lettori) che potrebbero essere interessati.
Per il resto continuo con le mie attività e le mie passioni e continuo a scrivere soprattutto per i siti internet Arlequins (www.arlequins.it) e Rotters’ Club (www.rottersclub.net.
Giuseppe Di Spirito è nato a Napoli il 14/10/1973 e risiede a Capaccio (SA) dal 1999. È un eclettico e vorace appassionato di musica, toccando tutti i generi, ma con una particolare predilezione verso il progressive rock in tutte le sue forme e manifestazioni dalle origini ai giorni nostri.
Collabora con i siti internet Rotters' Club (di cui è anche fondatore) e Arlequins e con la webzine Rotters' Magazine, legata proprio al sito Rotters’ Club.
È uno degli autori di Prog 40, libro a più mani licenziato da Edizioni Applausi, con la prefazione di Aldo Tagliapietra delle Orme.
Ha partecipato alla breve avventura della fanzine Trespass, fa parte del progetto Gnosis e ha collaborato con varie riviste come Metal Shock e Colossus. Ha collaborato anche con il giornale locale Unico.
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luca de pasquale 2015