DROP DOWN
AND LOOK AT OUR RECORDS ROSTER
SCORRI IL MENU A TENDINA E
DAI UN'OCCHIATA AL NOSTRO ARCHIVIO INTERVISTE
AND LOOK AT OUR RECORDS ROSTER
SCORRI IL MENU A TENDINA E
DAI UN'OCCHIATA AL NOSTRO ARCHIVIO INTERVISTE
INDEX
|
|
|
POLTERGEIST, "BACK TO HAUNT" (
PURE STEEL 2016)
Nati come Carrion (il cui “Evil Is There” è stato recentemente ristampato dalla messicana Blower), i Poltergeist toccarono il loro vertice con “Behind My Mask” del 1991, full-length totalmente devoto ai dettami thrash.
|
Abbiamo più volte speso parole di elogio per l'opera di “recupero” e “risorgimento” svolta dalla label tedesca Pure Steel: non possiamo che confermare quanto già detto, in presenza della rinascita di una seminale band del thrash metal tecnico come gli svizzeri Poltergeist. Con tre lavori pubblicati tra il 1989 e il 1993, gli elvetici si segnalarono come una band potente, dal songwriting composito, capace di fuoriuscire con una certa autorità dai miasmi di quella deriva imitatoria e nostalgica molto diffusa tra i thrashers dell'epoca. |
Con una line-up riformata per tre quinti, modellata sui senatori André Grieder (voce) e V.O. Pulver (chitarre), i Poltergeist si ripresentano dopo uno iato di ventidue anni -ricordiamo però l'attività di Pulver con gli ottimi Gurd - con “Back To Haunt”, titolo alquanto icastico. Dietro le pelli troviamo Sven Wormann, che raccoglie in modo eccellente la difficile eredità del mostro Peter Haas; al basso, fresco di entrata, l'ex Requiem Ralf Winzer Garcia, il quale sbriga le sue funzioni ritmiche con muscolare agilità. Chasper Wanner alle chitarre è una garanzia.
|
Diciamo subito che il seguito cultuale dei Poltergeist ha un suo preciso senso e oggi trova benzina per rinfocolarsi a dovere. Un disco come “Back To Haunt” nel 2016 serve alla band per ricarburare al meglio e ai nostalgici metallers delle grandi ere per ottenere certificazione dell'esistenza e buona salute del metal “serio” anche oggi.
Il disco si apre con la title track, dirompente e tecnica al punto giusto, con Wormann sugli scudi. Molto riuscita “And so it has begun”, complessa nello svolgimento e attraversata da un basso nervoso, solidissimo. “Faith is gone” rinsalda la direzione sicura della band svizzera, mantenendo la devozione alle origini e rinfrescandola con parti tecniche ottime e prive di qualsivoglia esibizionismo. |
|
“Shell beach”, solenne e tagliente, riecheggia riff e sincopi dei conterranei Coroner (“Grin” in particolare), con un piglio à la Destruction, band nella quale non va dimenticato che Grieder ha militato.
“Beyond the realms of time” è la sorpresa aurea che non ti aspetti: con coordinate da ballata cupa e lisergica nelle suggestive intro e outro, possente nel mezzo. Si ribadisce, con l'efficacia delle tinte in ombra, l'arte tipicamente metal dell'arpeggio evocativo.
Altro punto a favore di “Back To Haunt” è l'assenza - cosa rara di questi tempi - di tracce deboli e meri riempitivi.
“Beyond the realms of time” è la sorpresa aurea che non ti aspetti: con coordinate da ballata cupa e lisergica nelle suggestive intro e outro, possente nel mezzo. Si ribadisce, con l'efficacia delle tinte in ombra, l'arte tipicamente metal dell'arpeggio evocativo.
Altro punto a favore di “Back To Haunt” è l'assenza - cosa rara di questi tempi - di tracce deboli e meri riempitivi.
Questa nuova opera dei Poltergeist sia da pretesto per una breve riflessione, che dovrebbe coinvolgere chiunque ami la musica, uscendo dallo stagno dei generi. Oggi, comprare un disco è un atto di coraggio, di fede. Considerando un disco come “oggetto contenente arte” possiamo, continuando ad acquistarne, dare sostegno a band ed etichette che presentano progetti coerenti, storicamente corretti, quasi rivoluzionari nel loro riproporre un linguaggio, come quello del metal, che rimarrà universale e sincero, quando sgombro dagli imbarazzanti orpelli del marketing.
|
I Poltergeist sono un gruppo vero, da rispettare e apprezzare, coraggiosi nel ripresentarsi non appesantiti nelle idee, per nulla, bensì -come dovrebbe essere per tutto ciò che non urla senso pop obbligatorio - rinvigoriti nel sound, granitico e curato. Se avete amato (e non dimenticato) la franca ricchezza espressiva del thrash metal, questo disco va comprato.
8/10
8/10
Luca De Pasquale 2016
Grafica a cura di Manuela Avino
"the lexicon of love ii":
il ritorno del sognatore martin fry
abc)
Non ci credevo.
Non ci ho creduto fino all'ultimo. Martin Fry tornava. Non solo alla sigla ABC, quasi dopo una decina d'anni, ma anche ai luoghi ideali e sublimi del 1982, l'anno dell'indiscusso capolavoro “The lexicon of love”. Ho aspettato diversi giorni, dopo averlo acquistato, prima di ascoltare il secondo capitolo. Quasi come se avessi il timore di rimanere deluso, di non ritrovare quella magia (effettivamente irripetibile) che tanto aveva contribuito a fare di me - all'epoca decenne - un sognatore orchestrale, un fallito crooner notturno, un'anima che sotto la cartavetrata palpitava invece del più letale dei romanticismi disperati. Quel disco del 1982, come ho già avuto modo di scrivere molto recentemente, mi ha talmente posseduto e forgiato da rendere inestinguibile una forma di languore esistenziale e sentimentale così potente da essere destinata naturalmente al dolore e ai suoi affluenti. In questo disco c'è naturalmente una propensione a suoni più moderni ed aggiornati, per quanto mi riguarda manca la spinta propulsiva del basso (fatta eccezione per la sorprendente “I believe in love”, con tanto di assolo fretless), ma manca anche -e questo è un bene, tutto sommato- la stupefacente ingenuità del primo capitolo. Perché Fry e la Dudley maneggiano con sapienza un materiale vivo che riesce a trovare un difficile equilibrio tra echi di “old new pop”, soul di pura seta e melodramma, croonerismo tipicamente britannico e mai sguaiato o crocieristico.
Questo “The lexicon of love II” è un gesto coraggioso, da parte di Martin Fry. Sì, perché il rischio altissimo di sbiadire al cospetto della vecchia meraviglia era quasi annunciato. E invece funziona. Attecchisce, e soprattutto RESTA. Ma non solo: questo lavoro di Martin Fry (58 anni compiuti il 9 marzo) si incastonerebbe perfettamente, certamente con una leggerezza che molti non perdonano per partito preso, con ascolti di Scott Walker, Tindersticks, Richard Hawley e tutti quelli che in qualche modo sanno ammettere, rendendo quest'attitudine arte, quanto siano mossi dalle oscillazioni del cuore.
|
Trentaquattro anni dopo, Martin Fry torna. Maturo nelle intenzioni e nel sentire, leggermente imbolsito nell'aspetto, ma sempre di gran classe. La voce è quella. Non c'è Trevor Horn a produrre (Martin Fry produce con Gary Stevenson), d'accordo. Ma c'è Anne Dudley che è rimasta garanzia di eleganza. L'approccio Fry/Dudley a questo nuovo pezzo di romanticismo assoluto e “cresciuto” è vicino all'idea del musical. C'è un'ariosità di rara bellezza che attraversa tutte le tracce, ed è qui che scatta l'inevitabile e faziosa riflessione del fan storico: “Senza Martin Fry ed Anne Dudley questo seguito non sarebbe mai stato concepito, solo imitazioni su imitazioni...”
Riesce anche, il secondo passo imprevisto della saga, a riportare alla mente di quelli come me (e della mia età) un mondo popolato di fantastici folletti innamorati dell'amore ed abili a comunicarcelo e a contagiarci. Questo è un disco per fan degli ABC, certo, ma anche per chi è cresciuto con The Style Council, Aztec Camera, Prefab Sprout, The Pale Fountains, Everything But The Girl, i gruppi della LTM Records, gli Art Of Noise e persino le pagine migliori di esteti new romantics abitualmente fatti a pezzi dalla critica militante e più indie-oriented.
|
E quando Martin canta
If you can live your life without me Turn and walk away Minutes turn to hours Hours turn to days If you can't stand a single moment Then go But kiss me goodbye Kiss me Kiss me Kiss me Kiss me goodbye Kiss me goodbye da “Kiss me goodbye”, che è la canzone eletta a pezzo del 2016 e gancio melodico all'estetica non arresa del precoce inasprimento del cuore, posso dire senza enfasi che certo, ci sono attese che ne vale la pena. |
Martin Fry era un sognatore. Lo è ancora. Sì. Lo è da morire, altrimenti non avrei questo cd da giorni nel lettore. Io ero un sognatore. Ho avuto forse la coda più corta di Martin Fry (e di certo molto meno talento), eppure questo disco è una giornata bellissima su una barca. Non si sa dove diretta, per fortuna.
Intorno ai cinquant'anni o giù di lì. Con annessi acciacchi, rimorsi, rimpianti, buchi neri, vestiti lamé in soffitta, rose appassite e archi sognanti che possono far male. Torna Martin Fry, io non ci credevo, torna, mi veste di bianco e mi piazza su una barca in un mare ormai spaventosamente grande, riesce a convincermi che sono ancora giovane, passionale, romantico, e che i miei sogni di musical al tramonto sono ancora tutti in piedi. |
Luca De Pasquale 2016
Grafica a cura di Manuela Avino
Per un contrabbassista coraggioso, la musica di Thelonious Monk può rappresentare uno stimolo sempre vivo, un cimento, un territorio sterminato di grande interesse.
Mi piace fare solo un esempio, ma la lista sarebbe davvero lunga, pensando ad un contrabbassista indimenticabile, Jean-François Jenny-Clark, il quale nel 1969 fece parte del quartetto di Steve Lacy (con Aldo Romano e Michel Graillier) che incise lo splendido “Epistrophy” (poi ribattezzato banalmente, in sede di ristampa, come “Steve Lacy plays Monk”) JF dichiarò più volte che quell’incontro con Monk fu un’esperienza di grande forza e di ampio respiro. Quello era un quartetto. Noi oggi ci occupiamo di un contrabbassista in solitaria sulle strade di Monk: Dario Germani. Talmente coraggioso da pubblicare, per la sua label Global Research Music, un triplo vinile dedicato appunto al grande Thelonious Monk, dal titolo “Fog Monk”. Il lavoro di Germani, ancora molto giovane ma già alla terza prova da solista, presenta caratteristiche e peculiarità di grande interesse, non limitate a chi ama il contrabbasso e le incisioni solo dei contrabbassisti (che da Barre Phillips ad oggi possiamo dire dfinitivamente sdoganate, sono tra le più mobili e corpose che il jazz possa offrire). Innanzitutto, il luogo dove l’opera è stata registrata: Villa Aurelia, uno splendido edificio del seicento la cui acustica si è prestata assai bene alla performance di Dario Germani, conferendo al suono del contrabbasso quell’opportuno “peso della nota” che a Monk sarebbe certamente piaciuto, e non poco. In più, tornando per un attimo al formato, l’idea di un triplo LP è coraggiosa come detto ma anche felice, perché è come una suddivisione in sezioni di un continuum espressivo. ALBUMS AS SIDEMAN
|
È POSSIBILE ASCOLTARE UNA ANTEPRIMA DI ALCUNI BRANI SU GOOGLE PLAY A QUESTO LINK
per altre informazioni visitare http://dariogermani.com/ ALBUMS AS LEADER
Nelle belle note di Francesco Martinelli che accompagnano il vinile –grafica efficace e foto molto suggestive- viene citato Charlie Haden, contrabbassista che di certo è nelle preferenze di Dario, e quell’aspetto – fondamentale peraltro - del contrabbasso in solo che non esclude, anzi valorizza all’estremo; i “rumori” dell’esecuzione: le mani sulle corde, il passaggio sul legno, l’attimo dell’incontro tra musicista e strumento. Dario Germani è, come giustamente annota Martinelli, con Monk, con lo strumento, con l’ascoltatore. E funziona. |
Il terzo vinile del lotto vede la partecipazione, in quest’eccitante meeting di Dario Germani con Monk, della cantante Valeria Restaino. E questo intervento non fa che confermare tanto la bontà del progetto quanto la fondata convinzione che il binomio voce/contrabbasso sia, quando riuscito come in questa occasione, di grande fascino, in un vortice di incastri “unprotected” e per questo preziosi. Molto belle le versioni di “Monk’s Dream” e “Round Midnight” su tutte.
Del repertorio affrontato da Dario Germani da solo sui primi due dischi, non ci sono pezzi da preferire ad altri, perché il lavoro è organico, coeso, ed ogni interpretazione succede e precede le altre in modo naturale, portando l’ascoltatore nelle maglie più vere del jazz, quelle che non prevedono l’ascolto a morsi o a spot. “Fog Monk” è quindi un’opera intrigante e matura, uno spot –stavolta la parola si presta nella migliore accezione- per il jazz italiano e per la ricerca del suono e dell’anima del contrabbasso. Germani è un musicista che sta seminando più che bene ed è destinato ad un ruolo di primo piano nel bassismo europeo e non solo. Disco consigliato, decisamente. |
TITO MANGIALAJO RANTZER, "Dal Basso In Alto"
|
POTETE ASCOLTARE LE TRACCE DELL'ALBUM A QUESTO LINK:
https://soundcloud.com/titomangialajorantzer/sets/dal-basso-in-alto |
|
Un disco di contrabbasso solo è sempre una sfida. Proprio concettualmente. Il contrabbasso è uno strumento estremamente impegnativo e con il quale, evitando la trappola immaginifica e retorica della stazza, si instaura un vero e proprio corpo a corpo, pur se teso all’armonia.
“Dal basso in alto”, uscito nel 2014, è il primo lavoro solista dell’indaffaratissimo contrabbassista italiano Tito Mangialajo Rantzer. Chiunque di voi abbia una collezione di dischi jazz in casa avrà probabilmente almeno un disco in cui suona Tito. Proprio il ragguardevole numero di incisioni e collaborazioni di TMR ha probabilmente fatto slittare l’atteso debutto da solista di qualche anno. Che, va detto subito, non delude nessuna aspettativa, perché è un lavoro molto vario, espressivo, che paga i suoi tributi in termini di ispirazioni con molta originalità. Inoltre, ma questa non è una novità per chi conosce lo stile di Tito Mangialajo Rantzer, il suono è caldo, avvolgente, si potrebbe dire “concavo”. Sì, un suono che effettivamente è solido ma accoglie, e cita con rigore e fantasia l’icona Ornette Coleman in ben quattro episodi, tutti riusciti: “Dee Dee”, “I heard it over the radio”, “The blessing” e “Law years”. Il powelliano “The fruit” si rivela una scelta particolarmente felice, adattissimo al suono di Tito. Tra i pezzi scritti dal leader, vanno menzionati lo splendido omaggio all’incomparabile Dave Holland nel riuscito ed icastico “DH”, l’omaggio a Sam Rivers “After Sam” ed il saltellante ed efficace “EB”. |
DH, BRANO TRATTO DALL'ALBUM "DAL BASSO IN ALTO" - IL VIDEO E' DI PROPRIETA' DEL CONTRABBASSISTA TITO GIAMBALAJO.
POTETE ASCOLTARE LE ALTRE TRACCE DEL DISCO SU SOUNDCLOUD A QUESTO LINK: https://soundcloud.com/titomangialajorantzer/sets/dal-basso-in-alto OLTRE CHE VEDERE ALTRE PERFORMANCE DAL VIVO SUL CANALE YOUTUBE DELL'ARTISTA AL SEGUENTE LINK: https://www.youtube.com/user/mangiatito Rantzer utilizza in questo suo primo lavoro anche tre composizioni di suoi partner musicali, e cioè Antonio Zambrini (Natale a Rimini), Paolo Botti (In Terra, molto intenso e con sommesso ed appropriato accompagnamento vocale) e il sassofonista Piero Delle Monache (Ascolta Se Piove, con in evidenza il tipico fischio del quale Tito ha fatto un’arte).
Molto interessante la resa dello standard di “I’ll be seeing you” di Sammy Fain, con un incedere seducente; allo stesso tempo, “The second time around” è perfettamente bilanciata tra il suo essere uno standard spot per i contrabbassisti più dotati e un’interpretazione voce/fischio assolutamente congrua. Già, perché in questo primo episodio di una strada solista che ci aspettiamo proficua, Tito Mangialajo Rantzer è uno e trino, considerando che, accostando al suo sontuoso contrabbasso la voce ed il fischio, ha creato una sorta di piccolo ensemble di jazz da camera molto calibrato. In attesa di un secondo capitolo solista che si annuncia allargato, mi sento di consigliare questo disco di Tito Mangialajo Rantzer. In primis, per avvicinarsi ad un contrabbassista tra i più fulgidi della scuola italiana, ma anche per avere ulteriore conferma che i dischi di solo contrabbasso, quando spontanei, riusciti e con un solido background alle spalle, possono essere tutt’altro che pesanti ed ostici, anzi. Sono dischi come questo che ci convincono ulteriormente che la fatidica emancipazione del gigante non si è mai esaurita ma è un work in progress. Basta che sia nelle mani giuste. Luca De Pasquale 2016 |
_ BROKEN DOWN,
|
Recensione: BROKEN DOWN,
|
All of the nine tracks alternate cleverly a basic heaviness with a real pop spirit; some parts of the tracks even border on a sound tinged with nuances of hip hop, gothic and crossover.
In the title track a fierce and distincive bass towers above and someone could venture a reckless cross between Godflesh and LCD Soundsytem. |
I nove brani alternano sapientemente una pesantezza di fondo con uno spirito effettivamente pop; alcuni inserti all'interno delle tracks sfiorano addirittura coloriture hip hop, gothic e crossover.
Nella title track svetta un basso aggressivo e demarcante, e si potrebbe azzardare un incrocio pericoloso tra Godflesh e LCD Soundsystem. |
“Rear view mirror” introduces a sort of wasteland and melancholy atmosphere, with very suggestive and basicly gothic bass lines: in this point the piano leads to the decadent stride of the track. |
“Rear view mirror" presenta un'atmosfera desolata e malinconica, con note di basso molto suggestive e sostanzialmente gotiche: qui è il pianoforte a determinare però l'andatura decadente del brano. |
The same piano also appears in “Scribble your world”, openly playing upon the dichotomy between a melancholic melody on the background and the overlapping of more industrial and metal vocals. |
Pianoforte che compare anche in “Scribble your world”, giocando apertamente sulla dicotomia tra la melodia malinconica di base e il sovrapporsi di vocals più smaccatamente industrial e metal. |
“Alienated music” keeps what promised, and it starts slyly with its conscious stengthness but with two surprises: there are sections with estranged ambient keyboards and a more beating and rhythmic coda.
And finally a hint of almost hip hop tints appears in the middle part of the track, as if to programmatically tie the audience. |
“Alienated music” mantiene quanto annuncia, partendo sorniona nella sua accorta virulenza, ma con due sorprese: inserti di tastiere ambientali stranianti e coda più pulsante e ritmica.
Nel centro esatto del pezzo, come a voler aggrovigliare l'ascoltatore programmaticamente, fa la sua comparsa un accenno di strofa quasi hip hop. |
“This art of mine” is a pop lottery which flirts with art rock and less obvious indie; it goes without saying that metal is not ruled out with a powerful guitar riff.
“Speculator” shows a more clearly theater profile of Broken Down music, with a highlighted as well as deeply structured and effective bass. |
“This art is mine” è una lotteria pop che flirta con l'art rock e l'indie meno prevedibile; inutile dire che non è escluso dal gioco il metal, con un riff potente di chitarra.
“Speculator” palesa più chiaramente l'elemento teatrale della musica dei Broken Down. Basso in evidenza, articolato ed efficace. |
The final episode, “Puzzle” (aptly called in this way) seems to embrace the complex of melting pot sound embodied by Broken Down: you can find chorus which sound like Zappa (always welcome), sections of metal, hardcore and foggy references to a punk background. |
L'episodio finale, “Puzzle” (nomen omen) sembra racchiudere la summa del meticciato sonoro dei Broken Down: ci trovi cori zappiani (sempre graditi), porzioni di metal, hardcore e nebbiosi richiami ad un background punk. |
VIRIDANSE, "VIRIDANSE" -(Fonoarte-Danze Moderne 2015)“Viridanse”, uscito per l'ottima Fonoarte-Danze Moderne, è innanzitutto un'affermazione decisa e senza sconti: i Viridanse sono tornati. Tornati, cresciuti, ulteriormente impreziositi. Non c'è un solo brano debole nel lotto degli otto qui proposti, incluso, come rimando ad un fulgido passato, “Ixaxar”, che acquista qui nuova luce. La sezione ritmica, Flavio Gemma al basso elettrico e Fabrizio Calabrese alla batteria, è coesa, compatta e melodica al punto giusto. Le chitarre di Enrico Ferraris si stendono sul tappeto ritmico, dilatano ed espandono il respiro del suono, implacabili richiami elettrici ma efficacissime anche negli inserti più lenti. Le tastiere, poi, sono anch'esse una carta vincente di questa nuova formazione a cinque, perché sono utilizzate da Giancarlo Sansone con puntualità, con un'intelligenza tante volte latente nel rapporto dello strumento con l'ambito rock.
|
Notevole la prova vocale di Gianluca Piscitello (autore anche dei testi, molto belli e interessanti, con Enrico Ferraris, mentre le musiche sono a firma del duo originario Ferraris/Gemma), perfettamente a suo agio nel magma sonoro della band, impegnato a cantare testi mai banali, lontani da ogni forma di retorica o di disimpegno. E questo è un fattore non trascurabile, considerato che le liriche -spiace dirlo- sono state e sono spesso il tallone d'Achille del rock nostrano, naturalmente con le dovute eccezioni. Personalmente, confermando il livello qualitativo davvero alto delle composizioni, le mie preferenze vanno a due brani in particolare, “Samsara” e “Credi”, quest'ultimo estremamente seduttivo con un'alternanza eccezionale di elettrico ed acustico, di tiro squisitamente rock e di trasognata psichedelia post wave. Sì, i Viridanse sono tornati.
9/10
9/10
Luca De Pasquale-Manuela Avino 2015
DAVE STURT, "DREAMS AND ABSURDITIES" - (
|
|
AS DARKNESS DIES,
|
AS DARKNESS DIES,
|
DEAF DEALER – Journey Into Fear (Sonic Age Records/Cult Metal Classics 2014)
Chi ha avuto modo di leggere la mia intervista al bassista dei Deaf Dealer, Jean-Pierre Fortin, su questo blog già saprà di quale disco sto parlando.
Per gli altri, mi basta dire che questa ristampa della sempre meritoria label greca Cult Metal Classics è degna di massima attenzione per tutti coloro che hanno amato l'heavy metal più puro degli ottanta, ma anche per chi ha amato gli Iron Maiden e quelle band classiche che proponevano un sound sorretto e per così dire “tipicizzato” dal basso elettrico.
Infatti, pur offrendo all'ascolto una cifra originale e di notevole impatto, ascoltando questo classico per troppo tempo sommerso dall'inadeguatezza del mercato discografico non possono non venire in mente (anche) gli Irons e Steve Harris, vista anche la geometria della formazione, basso centrale, doppia chitarra solista, voce e batteria.
Jean-Pierre Fortin, coadiuvato dal vocalist Michel Lalonde, dai due axemen Yves Pedneault e Marc Brassard e dal batterista Daniel Gregoire, sforna infatti al basso una prova davvero maiuscola, connotata da stop and go, arpeggi e cavalcate harrisiane di notevolissima fattura, mai fuori contesto e capaci di tingere il sound della band canadese con grande forza.
“Journey Into Fear”, originariamente inciso nel 1986, araba fenice per tanti cultori del metal ottantiano, supera però agevolmente la prova del tempo; anzi, paradossalmente, suona più moderno e compatto di tanti dischi usciti negli ultimi anni. Un insistito paragone con gli Iron Maiden non farebbe giustizia alla band canadese, però posso dire tranquillamente che questo lavora non sfigura affatto se associato a lavori come “Piece of mind” e “Powerslave”. La competenza tecnica è altissima.
Gli episodi felici del disco sono molti. “Back to God's country” apre con aggressività, “Mind games” travolge da subito con la batteria ed è una cavalcata veloce e spietata, “Blood and sand” parte come una ballad ma si evolve al meglio, “Tribute to a mad man” si affida ad uno dei tanti bass start da urlo, “To hell and back” gioca su intarsi veloci e molto tecnici tra sezione ritmica (con Fortin sugli scudi) e i due axemen.
“Escape from the witch mountain” è un pezzo strumentale di grande forza, ed è qui che quelli come me possono toccare il cielo con un dito, considerato che Jean-Pierre Fortin non ha un solo momento di tregua, con una presenza corposissima e, qui con la piena valenza del complimento non derivativo, davvero vicina alla meravigliosa bulimia di Mr. Steve Harris.
Il disco si chiude con la title track, cupa ed epica a suggello di un riuscitissimo esempio di NWOBHM in salsa canadese, salsa per verità assai saporita, a confermare tutta la straripante qualità musicale di quella terra.
Difficile comprendere come un disco del genere sia rimasto sommerso per ventotto anni, considerata la qualità. Mi auguro sinceramente che questa splendida ristampa ottenga tutta l'attenzione dovuta, una sorta di doveroso e grato risarcimento per una delle tante ingiustizie discografiche perpetrate. E che sia, questa ristampa, il viatico per una resurrezione del marchio Deaf Dealer, garanzia assoluta.
TRACKLIST:
Back To God's Country
Mind Games
Blood And Sand
Tribute To A Mad Man
East End Terror
To Hell And Back
Escape From The Witch Mountain
Journey Into Fear
Jean-Pierre Fortin – electric bass
Michel Lalonde – vocals
Yves Pedneault – lead guitar
Marc Brassard – lead guitar
Daniel Gregoire - drums
Luca De Pasquale, 20 maggio 2015
Ascoltare “Origo” degli svedesi Burst, quarto lavoro del gruppo, è un'esperienza. Non consigliata ai deboli di cuore, ai soloni dell'approfondimento tedioso (“questo lo hanno gia fatto i...”, “niente di nuovo, è solo metalcore svedese”, “mi bastava un vecchio disco dei Neurosis”), ma soprattutto non consigliato a chi non cova -con un minimo di consapevolezza- rabbia dentro, rabbia che fatica a guarire e che brucia come un'infiammazione permanente.
Sono suoni lancinanti e straziati, quelli dei Burst, con voce scream e sei corde sotto sforzo, alternati però sapientemente a fasi oniriche letali che rappresentano la bellezza aggiunta del disco, il suo plusvalore. Come, forse, un uomo in agonia che si ostina a sognare. Come un demone capace ancora di innamorarsi. Come la luce del mattino lattiginoso dopo una notte di pioggia e di brutti sogni, di storie chiuse e di lavori insoddisfacenti.
Penso, in questo caso, a “Comes into view” con un basso zoppo e settantino e una chitarra malinconica, insinuante, mai statica, quasi sensuale. Penso alla parte centrale di “Where the wave broke”, maledettamente emotiva, quasi shoegaze, saltellante di dolore.
Il disco, uscito ormai da dieci anni per la sempre sorprendente Relapse (che in un fil rouge marcio e slabbrato riesce sempre a infilarci qualche scheggia di sogno), è da qualche giorno nel mio stereo, che ci tengo a sottolineare non è per audiofili e maniaci. È lo stereo di uno che mangia musica e non c'è altro da dire. Contrasto apertamente quella scuola di pensiero (???) che definisce necessario un impianto da mille e una notte per arrivare a capire un disco. È una teoria laccata, superficiale e stantia.
Con il pezzo “Stormwielder”, dopo scudisciate metal, sembra di finire in una dispersione à la Robert Smith, con un'aria rarefatta, satura, implacabilmente cupa. Qualcuno potrà pensare che quest'alternanza tra disperante aggressione sonora e interludi dreamy sia fittizia e costruita a tavolino, a me sinceramente non sembra affatto. È parte integrante, questo pastiche emozionale, del verbo metalcore, è struttura poco regolamentata ma anche legge tacita e funzionale del genere.
Al timone dei Burst c'è Jesper Liveröd, già bassista dei potenti Nasum; proprio l'efficace brano d'apertura, il già citato “Where the wave broke”, è dedicato a Mieszko Talarczyk, leader dei Nasum, perito tragicamente in Thailandia nel 2004, sorpreso dallo tsunami.
Forse è vero che dopo la violenza, dopo la rabbia e la decompressione, i momenti più quieti assumono una valenza differente, una sorta di quieta trascendenza, l'imprevista ricomposizione delle tenebre.
Ed allora, in questa luce rosa di un pomeriggio qualsiasi di estate in arrivo, ecco che “Comes into view” sembra uno spezzone di un disco di post rock ben riuscito, dimenticando tutto l'edificio dolorante da cui fuoriesce. Da riscoprire.
LdP, 25 maggio '15
Sono suoni lancinanti e straziati, quelli dei Burst, con voce scream e sei corde sotto sforzo, alternati però sapientemente a fasi oniriche letali che rappresentano la bellezza aggiunta del disco, il suo plusvalore. Come, forse, un uomo in agonia che si ostina a sognare. Come un demone capace ancora di innamorarsi. Come la luce del mattino lattiginoso dopo una notte di pioggia e di brutti sogni, di storie chiuse e di lavori insoddisfacenti.
Penso, in questo caso, a “Comes into view” con un basso zoppo e settantino e una chitarra malinconica, insinuante, mai statica, quasi sensuale. Penso alla parte centrale di “Where the wave broke”, maledettamente emotiva, quasi shoegaze, saltellante di dolore.
Il disco, uscito ormai da dieci anni per la sempre sorprendente Relapse (che in un fil rouge marcio e slabbrato riesce sempre a infilarci qualche scheggia di sogno), è da qualche giorno nel mio stereo, che ci tengo a sottolineare non è per audiofili e maniaci. È lo stereo di uno che mangia musica e non c'è altro da dire. Contrasto apertamente quella scuola di pensiero (???) che definisce necessario un impianto da mille e una notte per arrivare a capire un disco. È una teoria laccata, superficiale e stantia.
Con il pezzo “Stormwielder”, dopo scudisciate metal, sembra di finire in una dispersione à la Robert Smith, con un'aria rarefatta, satura, implacabilmente cupa. Qualcuno potrà pensare che quest'alternanza tra disperante aggressione sonora e interludi dreamy sia fittizia e costruita a tavolino, a me sinceramente non sembra affatto. È parte integrante, questo pastiche emozionale, del verbo metalcore, è struttura poco regolamentata ma anche legge tacita e funzionale del genere.
Al timone dei Burst c'è Jesper Liveröd, già bassista dei potenti Nasum; proprio l'efficace brano d'apertura, il già citato “Where the wave broke”, è dedicato a Mieszko Talarczyk, leader dei Nasum, perito tragicamente in Thailandia nel 2004, sorpreso dallo tsunami.
Forse è vero che dopo la violenza, dopo la rabbia e la decompressione, i momenti più quieti assumono una valenza differente, una sorta di quieta trascendenza, l'imprevista ricomposizione delle tenebre.
Ed allora, in questa luce rosa di un pomeriggio qualsiasi di estate in arrivo, ecco che “Comes into view” sembra uno spezzone di un disco di post rock ben riuscito, dimenticando tutto l'edificio dolorante da cui fuoriesce. Da riscoprire.
LdP, 25 maggio '15
DEL BENNETT&CHRIS KRINGEL – I SAID, 2009, Cd Baby, 13 tracks
A caccia di dischi dal groove articolato e potente, deviando sul mercato russo e su quello cinese, mi imbatto finalmente in quello che cercavo da tempo, e cioè “I Said”, lavoro firmato della coppia formata dal batterista Del Bennett e dal bassista Chris Kringel, che mi è noto per il suo lavoro con i sottovalutati Aeon Spoke e i Portal, sempre sul versante dei magnifici Cynic.
Potremmo dire che si tratta di un disco fusion intelligente. Perché la fusion intelligente esiste ancora, prescindendo volentieri dalle sonorità da cuscino, vasca con candele o rosa in bocca e sax tenore.
Sezione ritmica affiatatissima, quella di Bennett e Kringel; che per certi versi finisce per ricordarne un'altra delle eccellenti ed indimenticabili, ovverosia quella composta da Mike Clark e Paul Jackson, di hancockiana memoria.
L'amalgama sonoro con gli altri strumenti, sax e chitarra elettrica in particolare, è assolutamente fuori discussione. La disinvoltura sincopata di Bennett va a braccetto con il groove tondo e colto di Kringel, il quale alterna con efficacia e naturalezza fingerstyle e slap, non perdendo mai di vista la geometria profonda del fraseggio, anche nelle fasi soliste. Suono profondo e non pesante, gioco tecnico molto sofisticato ma non dimostrativo e muscolare.
L'ennesimo disco di meraviglioso professionismo finito in quella triste e ingiustificata matassa/montagna di fuori catalogo o introvabili. Non si capisce, al di là del gusto personale, come un lavoro del genere possa essere passato sotto silenzio. O lo si capisce fin troppo bene: pura e persistente miopia tanto dei discografici che di occasionali fruitori, magari più propensi ad acquistare il dodicesimo disco solista del bassista mainstream che ti fa l'assolo slap pulito e rarefatto al momento giusto, magari con aggiunta di esotici vocalizzi.
Personalmente, focalizzandomi ovviamente sulle quattro corde, considero Chris Kringel uno dei grandi della nuova specie, quelli capaci -per intenderci- di operare in diverse e felici misture di stili, e mi viene da mettergli accanto il suo collega “cinico” Sean Malone, Bryan Beller, Ray Riendeau, il sempre brillante Tim Landers, il nostro Lorenzo Feliciati, James Lomenzo, Robertino Pagliari (criminale non ascoltare Ohm e Ohmphrey), Chico Huff, Ric Fierabracci, Dave LaRue e molti altri.
Kringel brilla di luce propria, intersecato al drumming metronomico di Bennett, in “Actively Calm”, nella veloce e travolgente title track (con assolo melodico virato a slap'n'thumb), nel fretless oriented “Imprimus”, nello showdown del compagno “Mr. Bennett” (con echi holdsworthiani e rimandi al trio McGill/Manring/Stevens), nel sensuale e circolare groove di “Song for me”, con tanto di sax onnipresente, in “Twister” che sembra evocare Jaco e Percy Jones.
In tutto l'album, come si vede, lo standard esecutivo è di altissimo lignaggio. Posso anche immaginare che tipo di critiche possa attirare un lavoro del genere, vale a dire un artificioso sospetto di mancanza di profondità strutturale, vista l'appartenenza indubbia al genere fusion.
E invece la profondità ce l'ha eccome: consiste nella competenza strumentale elevatissima (mai circense e fine a se stessa) e nella freschezza del sound e probabilmente dell'intento finale, e cioè intrattenimento strumentale, denso di riferimenti, rimandi, citazioni e spirito rielaborativo con la creatività sempre sott'occhio.
In un mercato sempre più inflazionato da stuntmen delle quattro corde, e mi riferisco chiaramente al mondo del basso elettrico, la sobrietà potente di un Chirs Kringel grida vendetta.
Non so dire se Kringel, autore di fortunati ed efficaci metodi specifici sul basso elettrico (fretless, slap, funk) stia incidendo qualcosa di nuovo, ma spero vivamente di avere modo di poter apprezzare qualcos'altro di suo, oltre alle incisioni che già ho avuto modo di conoscere per derivazioni affettive (alludo ancora ai Cynic, un'adorazione che mi perseguita da anni e che mi ha portato in dote anche i Gordian Knot di Sean Malone).
C'è vita, tanta e sommersa, oltre l'hype da rivista specializzata, oltre lo snobismo sempre più bolso dei puristi e dei contenutisti di maniera, anche perché -volente o nolente- il suono di un basso dominato e indirizzato al meglio arriva dove nessuno strumento o campionamento può arrivare, meglio di un magico panno per eliminare la polvere dagli interstizi più nascosti.
Scovate questo disco, amatelo, mangiate del sano groove superprofessionale e mantenete l'ottimismo.
Luca De Pasquale, 30 aprile 2015
Dismemberment Plan, “Spider In The Snow”
Strada della domenica. Chiacchiere, paste, quotidiani sotto il braccio, parata di mostri. Higuain. El Pipita. El Pipa. Me ne sfiocco del Pipita e dei suoi tuffi. Pantaloni bianchi. Precarietà. Destino avvolto in pochi metri di strada. Cinque di spade sotto un'automobile, vedo la carta con la coda dell'occhio. Cinque di spade, ostacoli, blocco, nemici segreti, doglianza. La carta mi avvisa che ci vorrà tempo. Predire indifferente, cammino laterale, piedi disuniti, bambini alternati a vecchi, privazione di geometrie, musica contraddittoria, lampione d'intermittenza solitudine/rumore, passi avanti/riflessioni.
Voglio che la primavera sia solo uno scherzo.
Lunghe notti invernali. Lunghissime notti.
Stabilimenti, famigliole al bagno, parata d'amore che ravvede ciechi e storpi, sostituzioni, miniature, incesti.
Tutto quel che hai fatto non conta. Tutto quel che farai, possibilmente con il minor numero di persone attorno. Recuperi, revisioni, risarcimenti, ravvedimenti, troppe r iniziali dallo sfasciacarrozze.
Ricordi di bambino in organo acido. Ritmo, postura distratta, disfacimento innamorato di ombre cinesi. Primavera che si vanta di essere una puttana e io con le mani in tasca, lontane dal cazzo, simmetriche al cuore ma fredde.
Intronaut “Burning These Days”
“Io sono il vento e non tornerò mai più”
Questo mi ripetevo da bambino, a scuola, sul divano della nonna, solo nel mio letto con i robot che mi guardavano dal comodino, quando i miei mi coccolavano. Quando ricevevo un regalo.
“Io sono il vento e non tornerò mai più uguale”
“Nessuno torna mai più”
Però ero allegro e scherzavo in continuazione. Sembrava una contraddizione. Lo era. Il vento non torna mai com'era prima. Mai con gli stessi odori. Mai con le stesse intenzioni. Ogni volta è un sogno diverso. Ogni volta una lotta differente.
Morphine “Whisper”
Il blu cola da ogni sera di solitudine scelta e selezionata.
Slabbrato, organizzato e complesso mi recito a memoria. Per me solo e per le mie abitudini. Rivincita. Per tutte le volte che ho dovuto lavarmi il cazzo senza una sola stilla di convinzione. Per le stupide lettere d'addio suggerite e mai inviate. Per la storiografia affettiva che sono solo vermi senza esca. Per i numeri del pensiero in forma di troia in alcol, per le sbavature dei baci armistizio, per le squallide apparizioni nella vita di caratteristi del sospiro. Per quelle labbra che hai qualificato come allucinazione di felicità e poi sono state nausea. Per quella filosofia strisciante della compenetrazione e della partecipazione. Per tutte le volte che si è dovuto chiavare pensando ad altre persone. Per evitare il disagio, per timbrare il cartellino, per la ritenzione del bene.
Per tutti i pessimi libri sull'amore. Per tutti i conoscenti complessati con la voce impastata dal sesso mancante. Per tutta la perversione muscolare della maturità, essere felici senza alcuna felicità.
Per tutte quelle seduzioni decadenti che mi sembravano interessanti ed era solo merda da schizzo buono. Per quella smania di fare l'atto adulto in presenza di fantasmi saccenti.
Sangue dalle gengive, pensieri definitivi e diretti, postura di zero, rivolta e disgusto per le corse irregolari delle occasioni.
Campag Velocet “Sauntry Sly Chic”
Il buon senso. Il cordiale buon senso.
Godere senza pregare. Sborrare in faccia. Con rispetto. È liberatorio, è animalesco, è giusto.
Poi non resta che poco.
Il cordiale buon senso, non ci penso durante l'orgasmo.
Abat-jour ocra, febbre addosso e brividi durante il piacere. Ora sto venendo, ora godo, dopodomani sarò un'altra cosa che non saprò, che non conoscerò, che non venderò affatto bene. Questo mi interessa. Questo mi interessa, molto più del resto.
Sensibili pittori, scrittori al rosolio umanitario, guru scapigliati, mostre di moderna creatività, iniziative sociosolidali, riunioni di partito e pensiero: noia. Molta noia.
Essere disadorni. Fiorirsi ed esaurirsi addosso nel giro di poche notti.
Gli eroi sono dei noiosi stronzi.
“Creativo” non ha per me nessun significato di sbigottimento.
“Molto sensibile” può valere anche per storie di glande, è neutro. “Profondo” lo uso solo per i giri di basso.
“Passionale” lascia il tempo che trova, preferisco di gran lunga l'immagine di una passeggiata su fili invisibili, con la schiuma che ruggisce e ridicolizza ogni eroe conservato, ogni figurina con aureola al neon, luce tremante tra stomaco e basso ventre, soggetta agli schizzi dei capricci e della consunzione.
Brad “20th Century”
Ritmo, circolazione, novità.
Il pallido primo sole di Settembre e la presenza, nonostante tutto.
Dalle mie scale vedo il mare, i turisti educati salutano, succhio sigarette che si chiamano light, le succhio come un metronomo, qualcosa della praticità è rimasto sotto padrone, ma sono piuttosto libero. Certe cose sono costate molto, ma le ho svendute, per poco e alle persone meno indicate. Non c'è alcuna poesia nel tempo che passa e negli attimi da fermare. È solo tempo che passa.
Quaderni chiusi, eliminati, carta ricomprata, da scrivere, soffermandosi senza la posa adatta allo scatto.
Non si chiede mai di fotografare la parte migliore delle suggestioni altrui. Avreste lo stesso entusiasmo nel fotografare chi sta morendo, chi è in difficoltà? Le foto sapete farle solo come ciliegine. E vi date, vi aprite e godete solo se il resto della scena è sorvegliata da qualcuno. Valete pochissimo e parlate molto.
Le vostre vite non sono un'arguta novella, uno spunto da romanzo o un nuovo amore, la vostra vita è ricerca di benevolenza. Nulla di peggio.
Niente di più pedante e inutile.
Dalle mie finestre si vede il mare, dal mio cuore ancora vedo la prima grande bugia e non mi sembra più un albergo come un tempo.
Non posso chiedere di più, onestamente.
Frames “Stir”
Un appartamento più brutto dell'altro. Ad uno mancava lo spazio per la lavatrice, in un altro non si respirava, c'era puzza di muffa; ce n'era uno poi tanto grande quanto inutile, sproporzionato e faticoso da vivere. In ognuno di quegli appartamenti avevo scelto un angolo migliore, un angolo da guardare per sentirmi temporaneamente a casa. Un angolo di distrazione. Un angolo che non mi facesse pensare a tutti i soldi che buttavo in fitti a perdere, stamberghe di conservazione, e a quel gesto orribile che era pagare uno che fingeva di non aver registrato il contratto per quieto vivere reciproco.
Avevo anche abitato la terza casa di un noto professionista, che addirittura mi aveva pregato di non ricevere troppa posta o pacchetti con dischi, “perché non deve risultare”, diceva con aria afflitta. Quella testa d'uovo che sembrava chiazzata di merda di piccione mi dava la mano mollemente, dopo aver intascato la mia misera mensilità.
In quelle case venivano delle persone, ogni tanto. Ad ognuno di loro piaceva un dettaglio. C'è chi mi diceva “bella quella tazza verde”, e magari non ci bevevo mai. Un altro mi faceva i complimenti per la postazione di scrittura, che invece a me faceva schifo perché c'era il riflesso del sole e la gente da fuori poteva anche guardarmi. Qualcuno, per pura forma, mi regalava degli oggetti per quelle case indegne. Finiva che non li usavo. Finiva che li portavo a casa dei miei in quello sgabuzzino degli orrori rappresentato dal senso dell'inutile di chi non ci conosce ma ci vuole omaggiare pro forma.
I complimenti che ricevevo per oggetti e utensili che non amavo e non usavo erano la metafora più giusta per le sorti della persona. Spesso piacciamo per aspetti di noi che non ci soddisfano affatto, e che a conti fatti non ci rappresentano nemmeno. Come quando mi fanno i complimenti per come parlo in italiano, o per la forma di scrittura, ma nel tenero giudizio è incluso il disprezzo per i contenuti, che sono invece -e appunto- quel che preferisco.
Nessuno mi ha mai detto “fantastico quell'angolo lì”, alludendo all'unico punto della casa che avrei potuto amare. Ed io sorridevo, con la sigaretta semispenta in bocca, pronto ad incassare il cervellotico senso di apprezzamenti irriconoscibili, lontanissimi, quasi sempre grotteschi.
Gaznevada “Living In The Jungle”
“La mia è una storia pulita, molto pulita. Loredana è una donna davvero straordinaria... la nostra è una bellissima storia d'amore”.
Ascolto Errio El Barrio che mi racconta di questo miracolo laico, mentre il sole bacia in bocca, ma senza lingua, il quartiere Vomero, Napoli. Un quartiere dove alcuni residenti si sentono praticamente in un'altra città, tant'è che quando danno l'indirizzo ti recitano “via delle Pompe Scadute 5, Vomero, Napoli”.
Sono le sei di pomeriggio e il sole mi può anche baciare il culo, mentre Errio El Barrio mi parla di quanto è bello amare, farsi amare, farsi vedere quando si ama, farsi vedere quando si è amati, il tutto al Vomero, provincia di Napoli. Vomero Capitale. E sole che ci gratta le palle.
“E tu? Raccontami di te, della tua vita, della tua storia...”
Che condanna.
Dover ricambiare. Io mi sono aperto, compito fatto, tocca a te. Questo è il meccanismo.
E diciamoci cose belle, che il mondo già gira male, regola silenziosa alla quale si cerca di non contravvenire.
Ma a me, in queste situazioni, viene sempre la tentazione di rovinare tutto. Tanto si assorbe solo quello che si vuole assorbire. Ci sono i retropensieri. Le riserve mentali. I pregiudizi ed i preconcetti. Mi vanto di anticiparli, negli occhi dei miei interlocutori.
Facciamo un esempio. Se dico che sono felice, può capitare che il mio interlocutore pensi: “Capisco che mi dica questo, ma si vede che non è davvero felice, del resto ne ha passate tante...”
E se io intuisco questo retropensiero, il mio interlocutore è fottuto.
Perché poi passo ad altri modi, ad altri toni, e dico quel che mi va di dire. Mai la verità.
In questa occasione, mentre il sole del Vomero caput mundi ci soffia tra i testicoli, lo sfiatatoio dell'empatia, io so che Errio El Barrio ha sempre pensato che sono un erotomane. Non ne ha le prove, ma lui mi ha letto qualche volta ed è stato questo ciò che ha voluto intendere.
Lo accontento.
Prima faccio un commento sul culo della ragazza che serve ai tavoli, mi passo la lingua sulle labbra e mormoro osceno “mi piacerebbe farle un ripasso di spazzola, ago e filo, non sai quanto”, usando la stessa voce di Pino D'Angiò, poi gli racconto -senza scompormi- di aver fatto del sesso orale con la donna delle pulizie, quella che lavora nel mio palazzo. Naturalmente non è vero niente, ma basta aver letto Bukowski per farsi un'idea di come si può raccontare di un soffocone scandalizzando la gente. Basta indugiare quei dieci secondi sulla postura della bocca, sullo scenario, e se dici che hai dato anche dei soldi allora sì che sei un porco fottuto, un simpatico borderline da vedere per un caffè una volta ogni dieci mesi.
Errio El Barrio sembra indignato ed eccitato dalla mia efficace descrizione, cosa che mi fa desumere che lui e la sua meravigliosa Loredana tendono a soffocarsi poco, con i peli pubici.
Sono creature del nostro tempo, la loro è una storia pulita, se potessero farebbero figli anche solo con un bocchino o un cunnilingus. In loro manca totalmente la sporcizia radicale della libido lasciata libera.
Bel pomeriggio sera al Vomero (Na). Dopo questa chiacchiera colma di empatia e nostalgia di sperma non versato, andrò a cercarmi la Tour Eiffel e il Colosseo.
Mi avevano detto che al Vomero (Na) c'è anche il Partenone, e ci è venuto a fare un set fotografico anche quel cuoco stronzo che spopola in televisione, con i suoi sformati di mestruo all'albicocca vegetale.
Dopo aver visitato la tomba di Tutankhamon, potrò tornare a casa.
Felice. Felice di aver mentito per mantenermi in linea con la mia vita vera, quella che non richiede supposizioni scivolose e infide.
LdP, 29 marzo 2015
La mania dei dischi -se la si vuole chiamare così- non vale meno della mania per la pulizia dello spirito. della mania di risultare coerenti. delle manie inerenti la libertà, la libera espressione, i costumi sessuali e il volontariato. Io mi libero attraverso i dischi che amo, e le condanne sono meno insopportabili grazie alla musica. io volo in una sola canzone, mi consumo in poco meno di quattro minuti e poi rinasco.
Anche se nel mio regno non è mai pasqua e le resurrezioni avvengono solo in lontananza i Church.
Quando ascolto i church significa che sono malinconico. e psichedelico quanto basta. quando ascolto i church significa che declinerò la notte a modo mio, vale a dire senza stare troppo a menare il can per l'aia.
ho sempre amato la voce e il basso di steve kilbey, sono quelle cose che ho inseguito tutta la vita e non mi basteranno mai.
“The further adventures of the time being”, da “magician among the spirits”, è il pezzo che mi descrive e mi salva in questa fine di ottobre. ottobre è per me un mese di malinconia e di ricercata solitudine. Le atmosfere di questo pezzo mi appartengono, mi consentono di distendermi senza preoccuparmi del resto e dell'avanzo.
Mi piace quando fa notte e posso mettere su questo pezzo, con le luci di casa che sembrano un rothko ubriaco, perché questo, più degli altri undici, è un mese in cui quel che ci si porta dentro somiglia ad una camera di motel messa a soqquadro.
Si fa notte, mentre nelle case vicine qualcuno fa carne alla griglia, altri scattano foto al bambino che gioca, una coppia di amanti si fa largo in quella piscina melmosa che è il cercare di allungare il brodo emotivo di una scopata.
“Magician among the spirits” viaggia, ed io con lui. disco enorme, kilbey nei panni del demiurgo di contorni febbrili e caldi, voglia di liquore che devo tenere a bada perché so di non avere ben chiaro il senso del limite. Ma lo riconosco, lo ammetto, non sempre mi piace mantenere il controllo. mi piace perdermi, sbavare oltre i bordi, ferire le linee di confine con le ali. rigorosamente lontano dalla complicità da telefilm di certi eccessi, che invece sono e devono essere semplici estensioni della personalità.
Ma non bevo. Mi bastano i Church, mi basta la voce di steve kilbey e quel basso che saltella sobrio e profondo nell'aria calda delle chitarre.
Grandi i church. il mio roost notturno, l'appollatoio adeguato ogni dieci o venti notti di pausa. come i prefab sprout, ma incidendo di più nei tessuti meno visibili.
Di notte, le persone che riescono ad amare hanno occhi trasparenti. come vetro attraversato dal fuoco. nella scena blu, blu di oscurità, riescono a scintillare. come un canto di elettricità pulita prima di morire.
Ed è inutile cercare le mani, l'abbraccio, la conferma, perché bastano gli occhi, quel flusso ondulato di illuminazione non eterna che è il mescolarsi senza chiedere troppo alla vita.
Il tempo passa e nelle notti del tempo che passa inesorabile ho sempre meno bisogno di rumore e di scuse.
Ogni mattina nuova disconosco un oggetto. la mattina dell'ultimo giorno dell'anno avrò disconosciuto 364 oggetti e forse altrettante persone o sintomi di passioni.
Ogni mattina, lavanda gastrica di una smania, disconosco un pezzo di me stesso e lo lancio in pasto ai miei cani. ogni mattina ho un nuovo progetto che si costruisce sulla morte dei precedenti. sono fatto così: cerco zampilli nelle carogne. spolpo la zavorra stanca tutte le mattine e cavo, deus ex machina orbo e limitato, da quella materia il suono nuovo che mi serve. mi serve a controllare sobriamente lo stato della mia inevitabile perdizione.
Da semi scomposti e marciti prendo il necessario per creare piccoli idoli tuttofare della durata di un giorno, una notte, addirittura un sorriso.
La faccina con il sole da disegnare alla lavagna per guadagnarsi qualche vicinanza può andare affanculo.
I fiori notturni sono come rapaci, e per amare si lanciano nel vento, impiccati alle loro radici, persi in una canzone dei church, innocui e psichedelici come amori non censiti.
Tra due ore sarà già notte.
Ascolto “ricochet”, il basso di kilbey transita nell'auricolare sinistro, equilibra il blu e il nero, è la carta d'identità scritta con gli sboffi di vento che gli altri hanno trascurato.
Anche se nel mio regno non è mai pasqua e le resurrezioni avvengono solo in lontananza i Church.
Quando ascolto i church significa che sono malinconico. e psichedelico quanto basta. quando ascolto i church significa che declinerò la notte a modo mio, vale a dire senza stare troppo a menare il can per l'aia.
ho sempre amato la voce e il basso di steve kilbey, sono quelle cose che ho inseguito tutta la vita e non mi basteranno mai.
“The further adventures of the time being”, da “magician among the spirits”, è il pezzo che mi descrive e mi salva in questa fine di ottobre. ottobre è per me un mese di malinconia e di ricercata solitudine. Le atmosfere di questo pezzo mi appartengono, mi consentono di distendermi senza preoccuparmi del resto e dell'avanzo.
Mi piace quando fa notte e posso mettere su questo pezzo, con le luci di casa che sembrano un rothko ubriaco, perché questo, più degli altri undici, è un mese in cui quel che ci si porta dentro somiglia ad una camera di motel messa a soqquadro.
Si fa notte, mentre nelle case vicine qualcuno fa carne alla griglia, altri scattano foto al bambino che gioca, una coppia di amanti si fa largo in quella piscina melmosa che è il cercare di allungare il brodo emotivo di una scopata.
“Magician among the spirits” viaggia, ed io con lui. disco enorme, kilbey nei panni del demiurgo di contorni febbrili e caldi, voglia di liquore che devo tenere a bada perché so di non avere ben chiaro il senso del limite. Ma lo riconosco, lo ammetto, non sempre mi piace mantenere il controllo. mi piace perdermi, sbavare oltre i bordi, ferire le linee di confine con le ali. rigorosamente lontano dalla complicità da telefilm di certi eccessi, che invece sono e devono essere semplici estensioni della personalità.
Ma non bevo. Mi bastano i Church, mi basta la voce di steve kilbey e quel basso che saltella sobrio e profondo nell'aria calda delle chitarre.
Grandi i church. il mio roost notturno, l'appollatoio adeguato ogni dieci o venti notti di pausa. come i prefab sprout, ma incidendo di più nei tessuti meno visibili.
Di notte, le persone che riescono ad amare hanno occhi trasparenti. come vetro attraversato dal fuoco. nella scena blu, blu di oscurità, riescono a scintillare. come un canto di elettricità pulita prima di morire.
Ed è inutile cercare le mani, l'abbraccio, la conferma, perché bastano gli occhi, quel flusso ondulato di illuminazione non eterna che è il mescolarsi senza chiedere troppo alla vita.
Il tempo passa e nelle notti del tempo che passa inesorabile ho sempre meno bisogno di rumore e di scuse.
Ogni mattina nuova disconosco un oggetto. la mattina dell'ultimo giorno dell'anno avrò disconosciuto 364 oggetti e forse altrettante persone o sintomi di passioni.
Ogni mattina, lavanda gastrica di una smania, disconosco un pezzo di me stesso e lo lancio in pasto ai miei cani. ogni mattina ho un nuovo progetto che si costruisce sulla morte dei precedenti. sono fatto così: cerco zampilli nelle carogne. spolpo la zavorra stanca tutte le mattine e cavo, deus ex machina orbo e limitato, da quella materia il suono nuovo che mi serve. mi serve a controllare sobriamente lo stato della mia inevitabile perdizione.
Da semi scomposti e marciti prendo il necessario per creare piccoli idoli tuttofare della durata di un giorno, una notte, addirittura un sorriso.
La faccina con il sole da disegnare alla lavagna per guadagnarsi qualche vicinanza può andare affanculo.
I fiori notturni sono come rapaci, e per amare si lanciano nel vento, impiccati alle loro radici, persi in una canzone dei church, innocui e psichedelici come amori non censiti.
Tra due ore sarà già notte.
Ascolto “ricochet”, il basso di kilbey transita nell'auricolare sinistro, equilibra il blu e il nero, è la carta d'identità scritta con gli sboffi di vento che gli altri hanno trascurato.
I dischi formativi, quelli che mi hanno “messo in pasta” ed aperto la strada ad una passione che non si è mai interrotta, sono assolutamente eterogenei.
Per mia fortuna, posso dire di non appartenere a nessun genere bello e delimitato. Non ho mai creduto alla monogamia musicale, anzi la trovo deprimente. È per quello che finisci a vendere dischi, in tutta probabilità.
Ho iniziato ad ascoltare musica a undici anni, la fissazione dei dischi è partita quando ne avevo tredici. Mi sembra lapalissiano poter dire che non considero un disco come un semplice disco. Un disco è un mondo, un richiamo a se stessi e al mondo, la tessera di un mosaico infinito. Non se ne scappa: se ami i dischi, quel mondo non ti abbandonerà mai. Persino nei momenti più cupi. Anzi; è nelle fasi di sottrazione, di tormento, nelle scene di guerra, che quel patrimonio urla ancora di più la sua rilevanza.
Nel 1983, dovevo pur iniziare in qualche modo.
Iniziai ad acquistare i 45 giri di Sanremo 1983. Poi passai al pop. Era naturale, per un ragazzino. Mi incuriosii velocemente di altro, e così passai all’hard rock e all’heavy metal. Il post punk ha avuto un’importanza capitale nella mia formazione, e non solo per motivi meramente musicali. Ne condividevo la filosofia cupa e lucidissima, l’impostazione ideologica smaccatamente socialista e in alcuni casi situazionista ed assurdista. Il grunge non è stata una delle mie bandiere, ma il post grunge sì, ed anche molto.
Il jazz è venuto dopo la fusion, è stato certamente fondamentale, anche se sono sempre stato lontanissimo dall’integralismo del jazzofilo puro.
Ho capito molto presto che il mio primo obiettivo e orizzonte di curiosità sarebbero stati i dischi, e solo in seconda battuta libri e film. Anche se ho iniziato a scrivere relativamente presto, le mie influenze erano quasi tutte musicali. Mi è sempre sembrato naturale ricevere la spinta alla scrittura più dai dischi che da altri libri. Ciò non toglie che almeno duecento libri sono stati necessari alla mia vita, alla mia consapevolezza, più di qualsiasi altra cosa. Non dimentico di aver letto per quattro volte di fila, nel lontanissimo 1987, “Tropico del Cancro” di Henry Miller. Adoravo il personaggio di Van Norden, creazione di puro genio.
Questa consapevolezza all'epoca mi emarginò molto dai miei coetanei, eravamo a metà degli anni ottanta e girava l'edonismo, c’erano i paninari, Drive In e altra roba odiosa. Al liceo c'era la corsa a prendere la patente, ma la cosa non mi interessava; compravo dischi senza fermarmi. Mi giocavo l'intera paghetta di mio padre, al ginnasio, e il sabato sera ero costretto ad uscire dopo aver mangiato a casa perché non avevo mai una lira in tasca.
Ho sempre ragionato in questo modo: “Pochi soldi?” Okay, vaffanculo, mi consento quel che posso. Non faccio la formichina per comprare un motorino tra un anno, mi dicevo, meglio i dischi. E da adulto, con il mio stipendio da mille euro (di cui cinquecento se ne andavano subito nel fitto) ho continuato ad eseguire ostinatamente questa forma filosofica, dedita al piccolo ed immediato soddisfacimento. Tanto un operaio come me, uno da mille euro al mese quando va bene, non ha nessuna reale possibilità di cambiare la sua condizione. Andateci voi in Kenya, io compro le ristampe dei Killing Joke, tanto mica lo so se sopravvivo o no alla prossima settimana. Non c’è nulla di più grottesco e penoso dei poveri che sperano, un giorno, di diventare ricchi.
No, ora che ci penso c’è una cosa ancora più penosa: votare imprenditori di successo, plutocrati del cazzo, per AMMIRAZIONE. Ma che ammiri? Che te ne fotte che “quello ce l’ha fatta”? Fatti suoi, lui vive e se la gode, tu resti povero e coglione. E allora viva i dischi e l’appartenenza consapevole alla classe disagiata. Chi appartiene al mondo del lavoro salariato, chi arriva a stento a fine mese e ammira padroni e capitani d’industria è povero anche dentro, condannato alla farsa, fuori asse.
Comunque. Creperò, e non avrò fatto in tempo ad ascoltare tutta la musica che mi incuriosisce, tutta quella che mi rimanda ad altra musica, universi che si contraggono e si espandono, si apparentano e si fondono. Troppa roba. A prescindere dalla scarsa disponibilità economica (che pure è fondamentale, se la si pensa come me, e cioè che musica vuole dire dischi e non mp3, piattaforme liquide e quant’altro), è anche questione di tempo a disposizione.
Non riesco a stare dietro alle mie curiosità. E le mie curiosità sono rivolte –principalmente- ai minori, anche se ho i miei idoli e i miei santini ben venerati anche da altri.
In genere i maniaci di dischi sono persone scomposte, dei topi non abbronzati, con evidenti problemi di estetica e ancor di più con aperte e dolorose diaspore con l'universo femminile, cosa questa che ho cercato di scongiurare dagli albori della cosa. Anche perché uno che ama la musica non può non amare le donne. I due universi sono serene speculari: senza donne la musica perde mordente, senza musica non riesci forse a guardare una donna con la profondità necessaria.
Poter osservare i movimenti di una donna con in sottofondo i Prefab Sprout può essere un dono divino. I primi quattro dischi degli U2 erano pura sensualità e carica sessuale, come naturalmente il funk.
Certi maniaci di dischi sembrano persone “normali” ma perpetrano comportamenti preoccupanti e psicotici. Io lo so bene, ho venduto dischi per venti anni, li conosco quei dissociati, a modo mio sono uno di loro.
Non ho mai dimenticato i miei dischi formativi. Ogni tanto li riscopro e li riascolto avidamente, come fosse la prima o seconda volta. La seconda volta è sempre più bello. In tutto. Ogni tanto li riacquisto. Rimasterizzati, con bonus tracks, oppure in edizione giapponese o deluxe, perché devo ritrovarli e guai a rimuoverli dalla mia anima, guai a negare il ruolo, guai a passare avanti senza gratitudine.
I miei dischi formativi sono foto di quel che ero e di quello che sono diventato, i miei dischi basici sono io, alla fine.
Più ancora delle amicizie e delle storie d'amore, i dischi ti connotano, perché se nelle prime hai dovuto mediare, hai dovuto trovare punti di appoggio e di fusione, e perché molti rapporti sono semplicemente capitati, con i dischi la cosa è stata diretta, violenta, decisiva senza sfumature.
Non mi vergogno di nessuno dei miei dischi cardine, anche se oggi alcuni di loro possono suonare datati, superati, obsoleti e certamente prescindibili. Ognuno di quei dischi mi ha portato qualcosa, e in certi casi qualcuno. Ci sono anche dischi che non ho potuto più ascoltare, perché legati ad eventi della vita traumatici o sgradevoli, ma in ogni caso è impossibile demonizzare la musica.
Non mi piacciono le playlist, e forse il giochino di Nick Hornby è stato inflazionato e oramai è quasi una persecuzione, soprattutto sui social network.
Non se ne può più con la storia dei dieci dischi da isola deserta, lo dico proprio io che nelle interviste ai musicisti faccio la fatidica, puerile domanda. Sembra che arrivati ad un certo punto occorra trovare le dieci migliori cose per ogni campo dello scibile, dalle pietanze assaggiate alle donne amate, dai viaggi ai libri, finché non ci si tramuta in vere e proprie classifiche ambulanti.
Ma da qualche tempo, girando per la città sperando di non incontrare troppa gente, sperando di non dover rispondere a sciocche domande di circostanza, sperando di non essere abbracciato da ricordi già scontornati, sperando di non essere salvato dalla pietà empatica di qualche essere umano volontario, io declino la mia memoria con un senso di piena aderenza e gratitudine verso quei dischi che mi hanno portato dallo stato di ragazzino promettente ad adolescente difficile, fino all'uomo che sono adesso.
Uno che gira con la carta d'identità non aggiornata, rimasta a tre appartamenti prima e con qualifiche sociali non più valide. È pacifico che io appartenga ai “nuovi poveri”, che il mio ruolo nella società italiana sia totalmente marginale e certo non spendibile. Ma io, a differenza di molti altri, non gioco a fare ciò che non sono e non diventerò. È il mio unico pregio: non mi contrabbando.
Con la mia grafia mancina, incomprensibile anche a me stesso nelle giornate più difficili, annoto i dischi che ricordo essere i punti di partenza della mia passione, il decollo senza cinture di sicurezza.
Nessuna classifica, nessun compiacimento, nessun enciclopedismo d'accatto. Pezzi della mia vita. Solo quello.
23 Skidoo – Seven Songs
801 – Live
A Certain Ratio – I'd Like To See You Again
A Certain Ratio – To Each...
Abc – How To Be A Zillionaire
Abc – The Lexicon Of Love
AC/DC – Back In Black
AC/DC – Flick Of The Switch
AC/DC – Fly On The Wall
Alan Parsons Project – Vulture Culture
Alan Sorrenti – Bonno Soku Bodai
Alan Sorrenti – Di Notte
Alan Vega – Dujang Prang
Alice In Chains – Alice In Chains
America – The Very Best (Italian Edition)
Area – Arbeit Macht Frei
Area – Tic&Tac
Armored Saint – Delirious Nomad
Au Pairs – Playing With A Different Sex
Barry Adamson – Oedipus Schmoedipus
Beck, Bogert&Appice – Beck, Bogert&Appice
Belouis Some – Some People
Bernie Marsden – And About Time Too
Bill Cargill – Submarine Address
Billy Idol – Rebel Yell
Black Sabbath – Greatest Hits (Platinum) LP
Blow Monkeys – She Was Only The Groucer’s Daughter
Blue Oyster Cult – Cultosaurus Erectus
Bob Dylan – Empire Burlesque
Boz Scaggs – Silk Degrees
Brad – Shame
Bryan Ferry – Boys And Girls
Camel – Stationary Traveller
Caravan – Waterloo Lily
Cerebus – Too Late To Pray
Chicago – V
China Crisis – Flaunt The Imperfection
Chris Rea – On The Beach
Cinderella – Night Songs
Cock Robin – Cock Robin
Colosseum – Valentyne Suite
Colosseum II – Strange New Flesh
Count Zero – Affluenza
Cozy Powell – Tilt
Cream – Disraeli Gears
Cream – Live I
Cutting Crew – Broadcast
Danny Wilson – Meet Danny Wilson
David Bowie – Tonight
David Knopfler – Cut The Wire
David Sylvian – Brilliant Trees
David Sylvian – Gone To Earth
David Sylvian – The Secrets Of The Beehive
Deacon Blue – Fellow Hoodlums
Defunkt – Avoid The Funk
Devo – Q: Are We Not Men? A: We Are Devo
Diaframma – Boxe
Diaframma – Siberia
Dio – The Last In Line
Dire Straits – Brothers In Arms
Dire Straits – Love Over Gold
Donald Fagen – The Nightfly
Double – Blue
Duran Duran – Arena
Earth, Wind And Fire – Gratitude
Echo And The Bunnymen – Ocean Rain
Echo And The Bunnymen – Reverberation
Eleventh Dream Day – Lived To Tell
Everything But The Girl – Eden
Faust’O – J’Accuse Amore Mio
Faust’O – Poco Zucchero
Faust’O – Suicidio
Felix Pappalardi&Creation – Felix Pappalardi&Creation
Felt – The Splendour Of Fear
Felt – The Strange Idol Patterns And Other Stories
fIREHOSE – If'N
Frank Zappa – Ships Arriving Too Late To Save A Drowning Witch
Frankie Goes To Hollywood – Liverpool
Gang Of Four – Another Day Another Dollar EP
Gang Of Four – Entertainment!
Gang Of Four – Solid Gold
Gaznevada – Living In The Jungle
Gaznevada – Sick Soundtrack
Gentle Giant – Acquiring The Taste
Glaxo Babies – Put Me On The Guest List
Godflesh – Songs Of Love And Hate
Golden Palominos – Visions Of Excess
Grace Jones – Nightclubbing
Grace Jones – Warm Leatherette
Graham Central Station – The Jam
Greg Lake – Greg Lake
Groove Collective – Groove Collective
Haircut One Hundred – Pelican West
Huey Lewis&The News – Sports
Hugh Cornwell – Wolf
Inazuma Supersession – Absolute Live
Iron Maiden – Live After Death
Jack Bruce – A Question Of Time
Jack Bruce – Harmony Row
Jack Bruce – Songs For A Tailor
Jaco Pastorius – Invitation
Jaco Pastorius – Jaco Pastorius
James Brown – Sex Machine
James Chance&The Contortions – Buy
James White&The Blacks – Off
Japan – Exorcising Ghosts
Japan – Gentlemen Take Polaroids
Japan – Tin Drum
Jeff Beck – There And Back
Joan Armatrading – Secret Secrets
Joao Bosco – Zona De Fronteira
John Illsley – Never Told A Soul
John Martyn – One World
John Martyn – Solid Air
Johnny Hates Jazz – Turn Back The Clock
Jon Anderson – In The City Of Angels
Judas Priest – Sin After Sin
Kajagoogoo – Islands
Kajagoogoo – Kajagoogoo
Kajagoogoo – White Feathers
Keel – The Final Frontier
Kevin Coyne – Pointing The Finger
Kid Creole&The Coconuts – In Praise Of Older Women And Other Crimes
Killing Joke – Brighter Than A Thousand Suns
Killing Joke – Fire Dances
Killing Joke – Killing Joke
Killing Joke – Night Time
Killing Joke – Revelations
Killing Joke – What’s This For
King – Steps In Time
King Crimson – Discipline
Kiss – Asylum
Kiss – Creatures Of The Night
Lalo Schifrin – Bullitt
Level 42 – A Physical Presence
Level 42 – Level 42
Level 42 – Running In The Family
Level 42 – The Early Tapes
Level 42 – The Pursuit Of Accidents
Litfiba – 17 Re
Litfiba – 3
Litfiba – Desaparecido
Litfiba – Pirata
Living Colour – Vivid
Living In A Box – Living In A Box
Lizzy Mercier Descloux – Mambo Nassau
Lonnie Liston Smith – Expansions
Los Lobos – How Will The Wolf Survive
Lou Reed – Set The Twilight Reeling
Magazine – Magic, Murder&The Weather
Magazine – Play
Magnum – Wings Of Heaven
Marillion – Clutching At Straws
Marillion – Fugazi
Marillion – Misplaced Childhood
Martha And The Muffins – This Is The Ice Age
Matt Bianco – Whose Side Are You On
Maximum Joy – Maximum Joy
Megadeth – Peace Sells… But Who’s Buying
Metal Church – Metal Church
Metallica – Kill ‘Em All
Metro – America In My Head
Michael Franks – Objects Of Desire
Michael Franks – Skin Dive
Mick Karn – Bestial Cluster
Mick Karn – Titles
Minutemen – Double Nickels On The Dime
Motley Crue – Shout At The Devil
Motley Crue – Theatre Of Pain
Motorhead – City Kids
Mountain – Go For Your Life
Mr. Mister – Welcome To The Real World
New Wet Kojak – Nasty International
Nick Cave&The Bad Seeds – Your Funeral My Trial
Nino Buonocore – Nino Buonocore
Nino Buonocore – Una Città Tra Le Mani
Nomeansno – 0+2=1
OST – Phenomena
Ozric Tentacles – Afterswish
Ozric Tentacles – Erpland
Ozric Tentacles – Pungent Effulgent
Ozric Tentacles – Strangeitude
Ozzy Osbourne – Talk Of The Devil
P.I.L. – Metal Box
Paul Weller – Stanley Road
Paul Young – Between Two Fires
Pere Ubu – Cloudland
Pere Ubu – Worlds In Collision
Pink Floyd – Animals
Pink Floyd – The Final Cut
Pink Floyd – The Wall
Pino Daniele – Ferryboat
Pino Daniele – Musicante
Pino Daniele – Nero A Metà
Pino Daniele – Sciò
Pleasure – Special Things
Prefab Sprout – From Langley Park To Memphis
Prefab Sprout – Jordan The Comeback
Prefab Sprout – Steve McQueen
Primus – Pork Soda
Primus – Sailing The Seas Of Cheese
Prince – Around The World In A Day
Queen – A Kind Of Magic
Queen – Hot Space
Queensryche – Queen Of The Reich
Queensryche – Rage For Order
Queensryche – The Warning
Rain Tree Crow – Rain Tree Crow
Ramones – Too Tough To Die
Randy Coven – Sammy Says Ouch!
Red Hot Chili Peppers – Blood Sugar Sex Magic
Red Hot Chili Peppers – Mother’s Milk
Ric Ocasek – Fireball Zone
Rolling Stones – Sticky Fingers
Roxy Music – Avalon
Roxy Music – The Atlantic Years
Rubicon – What Start, Ends
Rush - Hemispheres
Rush – Hold Your Fire
Rush – Power Windows
Samson – Head Tactics
Santana – Marathon
Saxon – Innocence Is No Excuse
Saxon – Rock The Nations
Scorpions – Tokyo Tapes
Scorpions – World Wide Live
Scritti Politti – Songs To Remember
Shriekback – Big Night Music
Shudder To Think – Funeral At The Movies
Simple Minds – New Gold Dream
Slayer – Hell Awaits
Slayer – Reign In Blood
Slayer – Show No Mercy
Smart Went Crazy – Now We’re Even
Spandau Ballet – Parade
Spandau Ballet – True
Spin One Two – Spin One Two
Split Enz – Dizrhytmia
Stadio – La Faccia Delle Donne
Stan Ridgway – Mosquitos
Stanley Clarke – Hideaway
Stanley Clarke – School Days
Stanley Clarke – Stanley Clarke
Steely Dan – Aja
Steely Dan – Gaucho
Sting – The Dream Of The Blue Turtles
Stuart Hamm – Radio Free Albemuth
Suicide – Why Be Blue?
Supertramp – Brother Where You Bound?
Swans – Children Of God
Sweetback – Sweetback
T.A.G.C. – Big Love 7’’
Talk Talk – It’s My Life
Talk Talk – Spirit Of Eden
Talking Heads – Little Creatures
Talking Heads – Remain In Light
Tears For Fears – Songs From The Big Chair
Tears For Fears – The Seeds Of Love
Television – Adventure
Television – Marquee Moon
The Associates – The Affectionate Punch
The Blue Aeroplanes – Swagger
The Blue Nile – A Walk Across The Rooftops
The Cars – Candy-O
The Cars – Door To Door
The Cars – Panorama
The Church – Gold Afternoon Fix
The Church – Hologram Of Baal
The Church – The Blurred Crusade
The Creatures – Illusion
The Cure – Disintegration
The Damned – Phantasmagoria
The Dismemberment Plan - !
The Eagles – One Of These Nights
The Fall – Perverted By Language
The Fixx – Phantoms
The Jam – The Gift
The Pale Fountains – Pacific Street
The Police – Ghost In The Machine
The Police – Outlandos D’Amour
The Police – Reggatta De Blanc
The Police – Synchronicity
The Police – Zenyatta Mondatta
The Pop Group – For How Long Longer…
The Power Station – The Power Station
The Psychedelic Furs – Talk Talk Talk
The Sea And Cake – The Fawn
The Smiths – Meat Is Murder
The Smiths – Strangeways Here We Come
The Smiths – The Queen Is Dead
The Sound – From The Lions Mouth
The Stranglers – Feline
The Stranglers – Live At Hammersmith Odeon ‘81
The Style Council – Cafè Bleu
The Style Council – Our Favourite Shop
The Wonder Stuff – Construction For The Modern Idiot
The Young Gods – T.V. Sky
Thin Lizzy – Night Life
Thin White Rope – Sack Full Of Silver
This Heat – Deceit
TNT – Tell No Tales
Tom Verlaine – Dreamtime
Tom Verlaine – Flash Light
Tones On Tail – Night Music
Tuxedomoon – Half Mute
Twisted Sister – Come Out And Play
U2 – Boy
U2 – October
U2 – The Joshua Tree
U2 – The Unforgettable Fire
U2 – War
Ultravox – U-Vox
Vanilla Fudge – Mystery
Venom – French Assault
Vinnie Vincent Invasion – All Systems Go
Viridanse – Mediterranea
VVAA – Alter Bands (LP 1985)
VVAA – Pole Position (LP 1984)
Wall Of Voodoo – Call Of The West
Wall Of Voodoo – Dark Continent
Was (Not Was) – Born To Laugh At Tornadoes
Wasp – Inside The Electric Circus
Wasp – The Last Command
Wasp – Wasp
Waysted – Save Your Prayers
Wham – Make It Big
White Lion – Fight To Survive
White Tiger – White Tiger
Whitesnake – 1987
Whitesnake – Come An' Get It
Whitesnake – Saints And Sinners
Wipers – Land Of The Lost
Wire – 154
Wire – Chairs Missing
Wire – Ibtaba
Wire – Pink Flag
Xtc – Drums And Wires
Xtc – Nonsuch
Xtc – Oranges And Lemons
Yes – 90125
Yes – Big Generator
Young Marble Giants – Colossal Youth
342 dischi, dimenticandone colpevolmente almeno due vagonate.
“Oggetti d’arte e cultura” che hanno un particolare valore per me in relazione ad eventi, scelte, azioni, emozioni. Dischi dai quali sono partito, micce, cariche di dinamite, veri e propri arieti per forzare porte a me sconosciute.
Li amo nelle loro imperfezioni, anche quei pochi che oggi mi appaiono ridicoli e improponibili, se non altro non più aderenti ai miei gusti “evoluti”.
Sono uno strenuo difensore dei gusti. E della varietà. Per questo non partecipo mai volentieri a quegli acidi dibattiti su ciò che vale e quello che va rottamato. Le pose da parvenu, poi, mi fanno tremare. Conosco persone che ancora fingono di apprezzare il periodo free di Keith Jarrett senza capirci nulla e soprattutto non apprezzandone suoni, contesto, scopi. Ma è meglio dire che piace, no? Nei 342 dischi che ho appena listato ci sono pezzi di una leggerezza impalpabile, tant’è che ho osato inserire King e Wham in mezzo a Pop Group e Magazine.
Non si tratta di andare controcorrente per partito preso o per il vizzo gusto della provocazione culturale (culturale? Tanto in Italia il disco non è cultura, a meno che non si vada da Fazio a parlarne), si tratta di fedeltà a se stessi e a quel che si ama.
Poi ti chiedi, un giorno, a chi passerai l'eredità, a chi trasmetterai questo amore sconfinato?
Ma c'è bisogno di passare la mano? Quanti figli (me compreso) hanno venduto i dischi dei loro padri? Io ancora me ne vergogno.
L'eredità emotiva è una delle tante utopie, i lasciti emozionali restano e saranno sempre una scommessa. Meglio investire poco sulle suggestioni, poco e distrattamente, e continuare a perlustrare in cerca di brividi.
Luca De Pasquale, 2014/2016
Per mia fortuna, posso dire di non appartenere a nessun genere bello e delimitato. Non ho mai creduto alla monogamia musicale, anzi la trovo deprimente. È per quello che finisci a vendere dischi, in tutta probabilità.
Ho iniziato ad ascoltare musica a undici anni, la fissazione dei dischi è partita quando ne avevo tredici. Mi sembra lapalissiano poter dire che non considero un disco come un semplice disco. Un disco è un mondo, un richiamo a se stessi e al mondo, la tessera di un mosaico infinito. Non se ne scappa: se ami i dischi, quel mondo non ti abbandonerà mai. Persino nei momenti più cupi. Anzi; è nelle fasi di sottrazione, di tormento, nelle scene di guerra, che quel patrimonio urla ancora di più la sua rilevanza.
Nel 1983, dovevo pur iniziare in qualche modo.
Iniziai ad acquistare i 45 giri di Sanremo 1983. Poi passai al pop. Era naturale, per un ragazzino. Mi incuriosii velocemente di altro, e così passai all’hard rock e all’heavy metal. Il post punk ha avuto un’importanza capitale nella mia formazione, e non solo per motivi meramente musicali. Ne condividevo la filosofia cupa e lucidissima, l’impostazione ideologica smaccatamente socialista e in alcuni casi situazionista ed assurdista. Il grunge non è stata una delle mie bandiere, ma il post grunge sì, ed anche molto.
Il jazz è venuto dopo la fusion, è stato certamente fondamentale, anche se sono sempre stato lontanissimo dall’integralismo del jazzofilo puro.
Ho capito molto presto che il mio primo obiettivo e orizzonte di curiosità sarebbero stati i dischi, e solo in seconda battuta libri e film. Anche se ho iniziato a scrivere relativamente presto, le mie influenze erano quasi tutte musicali. Mi è sempre sembrato naturale ricevere la spinta alla scrittura più dai dischi che da altri libri. Ciò non toglie che almeno duecento libri sono stati necessari alla mia vita, alla mia consapevolezza, più di qualsiasi altra cosa. Non dimentico di aver letto per quattro volte di fila, nel lontanissimo 1987, “Tropico del Cancro” di Henry Miller. Adoravo il personaggio di Van Norden, creazione di puro genio.
Questa consapevolezza all'epoca mi emarginò molto dai miei coetanei, eravamo a metà degli anni ottanta e girava l'edonismo, c’erano i paninari, Drive In e altra roba odiosa. Al liceo c'era la corsa a prendere la patente, ma la cosa non mi interessava; compravo dischi senza fermarmi. Mi giocavo l'intera paghetta di mio padre, al ginnasio, e il sabato sera ero costretto ad uscire dopo aver mangiato a casa perché non avevo mai una lira in tasca.
Ho sempre ragionato in questo modo: “Pochi soldi?” Okay, vaffanculo, mi consento quel che posso. Non faccio la formichina per comprare un motorino tra un anno, mi dicevo, meglio i dischi. E da adulto, con il mio stipendio da mille euro (di cui cinquecento se ne andavano subito nel fitto) ho continuato ad eseguire ostinatamente questa forma filosofica, dedita al piccolo ed immediato soddisfacimento. Tanto un operaio come me, uno da mille euro al mese quando va bene, non ha nessuna reale possibilità di cambiare la sua condizione. Andateci voi in Kenya, io compro le ristampe dei Killing Joke, tanto mica lo so se sopravvivo o no alla prossima settimana. Non c’è nulla di più grottesco e penoso dei poveri che sperano, un giorno, di diventare ricchi.
No, ora che ci penso c’è una cosa ancora più penosa: votare imprenditori di successo, plutocrati del cazzo, per AMMIRAZIONE. Ma che ammiri? Che te ne fotte che “quello ce l’ha fatta”? Fatti suoi, lui vive e se la gode, tu resti povero e coglione. E allora viva i dischi e l’appartenenza consapevole alla classe disagiata. Chi appartiene al mondo del lavoro salariato, chi arriva a stento a fine mese e ammira padroni e capitani d’industria è povero anche dentro, condannato alla farsa, fuori asse.
Comunque. Creperò, e non avrò fatto in tempo ad ascoltare tutta la musica che mi incuriosisce, tutta quella che mi rimanda ad altra musica, universi che si contraggono e si espandono, si apparentano e si fondono. Troppa roba. A prescindere dalla scarsa disponibilità economica (che pure è fondamentale, se la si pensa come me, e cioè che musica vuole dire dischi e non mp3, piattaforme liquide e quant’altro), è anche questione di tempo a disposizione.
Non riesco a stare dietro alle mie curiosità. E le mie curiosità sono rivolte –principalmente- ai minori, anche se ho i miei idoli e i miei santini ben venerati anche da altri.
In genere i maniaci di dischi sono persone scomposte, dei topi non abbronzati, con evidenti problemi di estetica e ancor di più con aperte e dolorose diaspore con l'universo femminile, cosa questa che ho cercato di scongiurare dagli albori della cosa. Anche perché uno che ama la musica non può non amare le donne. I due universi sono serene speculari: senza donne la musica perde mordente, senza musica non riesci forse a guardare una donna con la profondità necessaria.
Poter osservare i movimenti di una donna con in sottofondo i Prefab Sprout può essere un dono divino. I primi quattro dischi degli U2 erano pura sensualità e carica sessuale, come naturalmente il funk.
Certi maniaci di dischi sembrano persone “normali” ma perpetrano comportamenti preoccupanti e psicotici. Io lo so bene, ho venduto dischi per venti anni, li conosco quei dissociati, a modo mio sono uno di loro.
Non ho mai dimenticato i miei dischi formativi. Ogni tanto li riscopro e li riascolto avidamente, come fosse la prima o seconda volta. La seconda volta è sempre più bello. In tutto. Ogni tanto li riacquisto. Rimasterizzati, con bonus tracks, oppure in edizione giapponese o deluxe, perché devo ritrovarli e guai a rimuoverli dalla mia anima, guai a negare il ruolo, guai a passare avanti senza gratitudine.
I miei dischi formativi sono foto di quel che ero e di quello che sono diventato, i miei dischi basici sono io, alla fine.
Più ancora delle amicizie e delle storie d'amore, i dischi ti connotano, perché se nelle prime hai dovuto mediare, hai dovuto trovare punti di appoggio e di fusione, e perché molti rapporti sono semplicemente capitati, con i dischi la cosa è stata diretta, violenta, decisiva senza sfumature.
Non mi vergogno di nessuno dei miei dischi cardine, anche se oggi alcuni di loro possono suonare datati, superati, obsoleti e certamente prescindibili. Ognuno di quei dischi mi ha portato qualcosa, e in certi casi qualcuno. Ci sono anche dischi che non ho potuto più ascoltare, perché legati ad eventi della vita traumatici o sgradevoli, ma in ogni caso è impossibile demonizzare la musica.
Non mi piacciono le playlist, e forse il giochino di Nick Hornby è stato inflazionato e oramai è quasi una persecuzione, soprattutto sui social network.
Non se ne può più con la storia dei dieci dischi da isola deserta, lo dico proprio io che nelle interviste ai musicisti faccio la fatidica, puerile domanda. Sembra che arrivati ad un certo punto occorra trovare le dieci migliori cose per ogni campo dello scibile, dalle pietanze assaggiate alle donne amate, dai viaggi ai libri, finché non ci si tramuta in vere e proprie classifiche ambulanti.
Ma da qualche tempo, girando per la città sperando di non incontrare troppa gente, sperando di non dover rispondere a sciocche domande di circostanza, sperando di non essere abbracciato da ricordi già scontornati, sperando di non essere salvato dalla pietà empatica di qualche essere umano volontario, io declino la mia memoria con un senso di piena aderenza e gratitudine verso quei dischi che mi hanno portato dallo stato di ragazzino promettente ad adolescente difficile, fino all'uomo che sono adesso.
Uno che gira con la carta d'identità non aggiornata, rimasta a tre appartamenti prima e con qualifiche sociali non più valide. È pacifico che io appartenga ai “nuovi poveri”, che il mio ruolo nella società italiana sia totalmente marginale e certo non spendibile. Ma io, a differenza di molti altri, non gioco a fare ciò che non sono e non diventerò. È il mio unico pregio: non mi contrabbando.
Con la mia grafia mancina, incomprensibile anche a me stesso nelle giornate più difficili, annoto i dischi che ricordo essere i punti di partenza della mia passione, il decollo senza cinture di sicurezza.
Nessuna classifica, nessun compiacimento, nessun enciclopedismo d'accatto. Pezzi della mia vita. Solo quello.
23 Skidoo – Seven Songs
801 – Live
A Certain Ratio – I'd Like To See You Again
A Certain Ratio – To Each...
Abc – How To Be A Zillionaire
Abc – The Lexicon Of Love
AC/DC – Back In Black
AC/DC – Flick Of The Switch
AC/DC – Fly On The Wall
Alan Parsons Project – Vulture Culture
Alan Sorrenti – Bonno Soku Bodai
Alan Sorrenti – Di Notte
Alan Vega – Dujang Prang
Alice In Chains – Alice In Chains
America – The Very Best (Italian Edition)
Area – Arbeit Macht Frei
Area – Tic&Tac
Armored Saint – Delirious Nomad
Au Pairs – Playing With A Different Sex
Barry Adamson – Oedipus Schmoedipus
Beck, Bogert&Appice – Beck, Bogert&Appice
Belouis Some – Some People
Bernie Marsden – And About Time Too
Bill Cargill – Submarine Address
Billy Idol – Rebel Yell
Black Sabbath – Greatest Hits (Platinum) LP
Blow Monkeys – She Was Only The Groucer’s Daughter
Blue Oyster Cult – Cultosaurus Erectus
Bob Dylan – Empire Burlesque
Boz Scaggs – Silk Degrees
Brad – Shame
Bryan Ferry – Boys And Girls
Camel – Stationary Traveller
Caravan – Waterloo Lily
Cerebus – Too Late To Pray
Chicago – V
China Crisis – Flaunt The Imperfection
Chris Rea – On The Beach
Cinderella – Night Songs
Cock Robin – Cock Robin
Colosseum – Valentyne Suite
Colosseum II – Strange New Flesh
Count Zero – Affluenza
Cozy Powell – Tilt
Cream – Disraeli Gears
Cream – Live I
Cutting Crew – Broadcast
Danny Wilson – Meet Danny Wilson
David Bowie – Tonight
David Knopfler – Cut The Wire
David Sylvian – Brilliant Trees
David Sylvian – Gone To Earth
David Sylvian – The Secrets Of The Beehive
Deacon Blue – Fellow Hoodlums
Defunkt – Avoid The Funk
Devo – Q: Are We Not Men? A: We Are Devo
Diaframma – Boxe
Diaframma – Siberia
Dio – The Last In Line
Dire Straits – Brothers In Arms
Dire Straits – Love Over Gold
Donald Fagen – The Nightfly
Double – Blue
Duran Duran – Arena
Earth, Wind And Fire – Gratitude
Echo And The Bunnymen – Ocean Rain
Echo And The Bunnymen – Reverberation
Eleventh Dream Day – Lived To Tell
Everything But The Girl – Eden
Faust’O – J’Accuse Amore Mio
Faust’O – Poco Zucchero
Faust’O – Suicidio
Felix Pappalardi&Creation – Felix Pappalardi&Creation
Felt – The Splendour Of Fear
Felt – The Strange Idol Patterns And Other Stories
fIREHOSE – If'N
Frank Zappa – Ships Arriving Too Late To Save A Drowning Witch
Frankie Goes To Hollywood – Liverpool
Gang Of Four – Another Day Another Dollar EP
Gang Of Four – Entertainment!
Gang Of Four – Solid Gold
Gaznevada – Living In The Jungle
Gaznevada – Sick Soundtrack
Gentle Giant – Acquiring The Taste
Glaxo Babies – Put Me On The Guest List
Godflesh – Songs Of Love And Hate
Golden Palominos – Visions Of Excess
Grace Jones – Nightclubbing
Grace Jones – Warm Leatherette
Graham Central Station – The Jam
Greg Lake – Greg Lake
Groove Collective – Groove Collective
Haircut One Hundred – Pelican West
Huey Lewis&The News – Sports
Hugh Cornwell – Wolf
Inazuma Supersession – Absolute Live
Iron Maiden – Live After Death
Jack Bruce – A Question Of Time
Jack Bruce – Harmony Row
Jack Bruce – Songs For A Tailor
Jaco Pastorius – Invitation
Jaco Pastorius – Jaco Pastorius
James Brown – Sex Machine
James Chance&The Contortions – Buy
James White&The Blacks – Off
Japan – Exorcising Ghosts
Japan – Gentlemen Take Polaroids
Japan – Tin Drum
Jeff Beck – There And Back
Joan Armatrading – Secret Secrets
Joao Bosco – Zona De Fronteira
John Illsley – Never Told A Soul
John Martyn – One World
John Martyn – Solid Air
Johnny Hates Jazz – Turn Back The Clock
Jon Anderson – In The City Of Angels
Judas Priest – Sin After Sin
Kajagoogoo – Islands
Kajagoogoo – Kajagoogoo
Kajagoogoo – White Feathers
Keel – The Final Frontier
Kevin Coyne – Pointing The Finger
Kid Creole&The Coconuts – In Praise Of Older Women And Other Crimes
Killing Joke – Brighter Than A Thousand Suns
Killing Joke – Fire Dances
Killing Joke – Killing Joke
Killing Joke – Night Time
Killing Joke – Revelations
Killing Joke – What’s This For
King – Steps In Time
King Crimson – Discipline
Kiss – Asylum
Kiss – Creatures Of The Night
Lalo Schifrin – Bullitt
Level 42 – A Physical Presence
Level 42 – Level 42
Level 42 – Running In The Family
Level 42 – The Early Tapes
Level 42 – The Pursuit Of Accidents
Litfiba – 17 Re
Litfiba – 3
Litfiba – Desaparecido
Litfiba – Pirata
Living Colour – Vivid
Living In A Box – Living In A Box
Lizzy Mercier Descloux – Mambo Nassau
Lonnie Liston Smith – Expansions
Los Lobos – How Will The Wolf Survive
Lou Reed – Set The Twilight Reeling
Magazine – Magic, Murder&The Weather
Magazine – Play
Magnum – Wings Of Heaven
Marillion – Clutching At Straws
Marillion – Fugazi
Marillion – Misplaced Childhood
Martha And The Muffins – This Is The Ice Age
Matt Bianco – Whose Side Are You On
Maximum Joy – Maximum Joy
Megadeth – Peace Sells… But Who’s Buying
Metal Church – Metal Church
Metallica – Kill ‘Em All
Metro – America In My Head
Michael Franks – Objects Of Desire
Michael Franks – Skin Dive
Mick Karn – Bestial Cluster
Mick Karn – Titles
Minutemen – Double Nickels On The Dime
Motley Crue – Shout At The Devil
Motley Crue – Theatre Of Pain
Motorhead – City Kids
Mountain – Go For Your Life
Mr. Mister – Welcome To The Real World
New Wet Kojak – Nasty International
Nick Cave&The Bad Seeds – Your Funeral My Trial
Nino Buonocore – Nino Buonocore
Nino Buonocore – Una Città Tra Le Mani
Nomeansno – 0+2=1
OST – Phenomena
Ozric Tentacles – Afterswish
Ozric Tentacles – Erpland
Ozric Tentacles – Pungent Effulgent
Ozric Tentacles – Strangeitude
Ozzy Osbourne – Talk Of The Devil
P.I.L. – Metal Box
Paul Weller – Stanley Road
Paul Young – Between Two Fires
Pere Ubu – Cloudland
Pere Ubu – Worlds In Collision
Pink Floyd – Animals
Pink Floyd – The Final Cut
Pink Floyd – The Wall
Pino Daniele – Ferryboat
Pino Daniele – Musicante
Pino Daniele – Nero A Metà
Pino Daniele – Sciò
Pleasure – Special Things
Prefab Sprout – From Langley Park To Memphis
Prefab Sprout – Jordan The Comeback
Prefab Sprout – Steve McQueen
Primus – Pork Soda
Primus – Sailing The Seas Of Cheese
Prince – Around The World In A Day
Queen – A Kind Of Magic
Queen – Hot Space
Queensryche – Queen Of The Reich
Queensryche – Rage For Order
Queensryche – The Warning
Rain Tree Crow – Rain Tree Crow
Ramones – Too Tough To Die
Randy Coven – Sammy Says Ouch!
Red Hot Chili Peppers – Blood Sugar Sex Magic
Red Hot Chili Peppers – Mother’s Milk
Ric Ocasek – Fireball Zone
Rolling Stones – Sticky Fingers
Roxy Music – Avalon
Roxy Music – The Atlantic Years
Rubicon – What Start, Ends
Rush - Hemispheres
Rush – Hold Your Fire
Rush – Power Windows
Samson – Head Tactics
Santana – Marathon
Saxon – Innocence Is No Excuse
Saxon – Rock The Nations
Scorpions – Tokyo Tapes
Scorpions – World Wide Live
Scritti Politti – Songs To Remember
Shriekback – Big Night Music
Shudder To Think – Funeral At The Movies
Simple Minds – New Gold Dream
Slayer – Hell Awaits
Slayer – Reign In Blood
Slayer – Show No Mercy
Smart Went Crazy – Now We’re Even
Spandau Ballet – Parade
Spandau Ballet – True
Spin One Two – Spin One Two
Split Enz – Dizrhytmia
Stadio – La Faccia Delle Donne
Stan Ridgway – Mosquitos
Stanley Clarke – Hideaway
Stanley Clarke – School Days
Stanley Clarke – Stanley Clarke
Steely Dan – Aja
Steely Dan – Gaucho
Sting – The Dream Of The Blue Turtles
Stuart Hamm – Radio Free Albemuth
Suicide – Why Be Blue?
Supertramp – Brother Where You Bound?
Swans – Children Of God
Sweetback – Sweetback
T.A.G.C. – Big Love 7’’
Talk Talk – It’s My Life
Talk Talk – Spirit Of Eden
Talking Heads – Little Creatures
Talking Heads – Remain In Light
Tears For Fears – Songs From The Big Chair
Tears For Fears – The Seeds Of Love
Television – Adventure
Television – Marquee Moon
The Associates – The Affectionate Punch
The Blue Aeroplanes – Swagger
The Blue Nile – A Walk Across The Rooftops
The Cars – Candy-O
The Cars – Door To Door
The Cars – Panorama
The Church – Gold Afternoon Fix
The Church – Hologram Of Baal
The Church – The Blurred Crusade
The Creatures – Illusion
The Cure – Disintegration
The Damned – Phantasmagoria
The Dismemberment Plan - !
The Eagles – One Of These Nights
The Fall – Perverted By Language
The Fixx – Phantoms
The Jam – The Gift
The Pale Fountains – Pacific Street
The Police – Ghost In The Machine
The Police – Outlandos D’Amour
The Police – Reggatta De Blanc
The Police – Synchronicity
The Police – Zenyatta Mondatta
The Pop Group – For How Long Longer…
The Power Station – The Power Station
The Psychedelic Furs – Talk Talk Talk
The Sea And Cake – The Fawn
The Smiths – Meat Is Murder
The Smiths – Strangeways Here We Come
The Smiths – The Queen Is Dead
The Sound – From The Lions Mouth
The Stranglers – Feline
The Stranglers – Live At Hammersmith Odeon ‘81
The Style Council – Cafè Bleu
The Style Council – Our Favourite Shop
The Wonder Stuff – Construction For The Modern Idiot
The Young Gods – T.V. Sky
Thin Lizzy – Night Life
Thin White Rope – Sack Full Of Silver
This Heat – Deceit
TNT – Tell No Tales
Tom Verlaine – Dreamtime
Tom Verlaine – Flash Light
Tones On Tail – Night Music
Tuxedomoon – Half Mute
Twisted Sister – Come Out And Play
U2 – Boy
U2 – October
U2 – The Joshua Tree
U2 – The Unforgettable Fire
U2 – War
Ultravox – U-Vox
Vanilla Fudge – Mystery
Venom – French Assault
Vinnie Vincent Invasion – All Systems Go
Viridanse – Mediterranea
VVAA – Alter Bands (LP 1985)
VVAA – Pole Position (LP 1984)
Wall Of Voodoo – Call Of The West
Wall Of Voodoo – Dark Continent
Was (Not Was) – Born To Laugh At Tornadoes
Wasp – Inside The Electric Circus
Wasp – The Last Command
Wasp – Wasp
Waysted – Save Your Prayers
Wham – Make It Big
White Lion – Fight To Survive
White Tiger – White Tiger
Whitesnake – 1987
Whitesnake – Come An' Get It
Whitesnake – Saints And Sinners
Wipers – Land Of The Lost
Wire – 154
Wire – Chairs Missing
Wire – Ibtaba
Wire – Pink Flag
Xtc – Drums And Wires
Xtc – Nonsuch
Xtc – Oranges And Lemons
Yes – 90125
Yes – Big Generator
Young Marble Giants – Colossal Youth
342 dischi, dimenticandone colpevolmente almeno due vagonate.
“Oggetti d’arte e cultura” che hanno un particolare valore per me in relazione ad eventi, scelte, azioni, emozioni. Dischi dai quali sono partito, micce, cariche di dinamite, veri e propri arieti per forzare porte a me sconosciute.
Li amo nelle loro imperfezioni, anche quei pochi che oggi mi appaiono ridicoli e improponibili, se non altro non più aderenti ai miei gusti “evoluti”.
Sono uno strenuo difensore dei gusti. E della varietà. Per questo non partecipo mai volentieri a quegli acidi dibattiti su ciò che vale e quello che va rottamato. Le pose da parvenu, poi, mi fanno tremare. Conosco persone che ancora fingono di apprezzare il periodo free di Keith Jarrett senza capirci nulla e soprattutto non apprezzandone suoni, contesto, scopi. Ma è meglio dire che piace, no? Nei 342 dischi che ho appena listato ci sono pezzi di una leggerezza impalpabile, tant’è che ho osato inserire King e Wham in mezzo a Pop Group e Magazine.
Non si tratta di andare controcorrente per partito preso o per il vizzo gusto della provocazione culturale (culturale? Tanto in Italia il disco non è cultura, a meno che non si vada da Fazio a parlarne), si tratta di fedeltà a se stessi e a quel che si ama.
Poi ti chiedi, un giorno, a chi passerai l'eredità, a chi trasmetterai questo amore sconfinato?
Ma c'è bisogno di passare la mano? Quanti figli (me compreso) hanno venduto i dischi dei loro padri? Io ancora me ne vergogno.
L'eredità emotiva è una delle tante utopie, i lasciti emozionali restano e saranno sempre una scommessa. Meglio investire poco sulle suggestioni, poco e distrattamente, e continuare a perlustrare in cerca di brividi.
Luca De Pasquale, 2014/2016
“I wake up in the morning
and the sun begins to shine
the day did sneak up on the night
I see your face and i see myself
and I get a little taste of life
I try to stand it for a while”
scorpions – in trance
Nei pomeriggi dell'inverno 1986 c'era un disco che mi teneva compagnia, a qualsiasi ora, rassicurante come una coperta e come il tepore di casa: “Tokyo Tapes” degli scorpions.
Un disco che mi piaceva moltissimo e che consumai. per un paio d'anni gli scorpions, con kiss e W.A.S.P., furono il mio gruppo preferito. La voce emotiva di Klaus Meine, la chitarra hendrixiana -che in seguito ho scoperto nobilissima- di uli Jon Roth, il basso molto discreto del lungagnone Francis Buchholz, la chitarra ritmica di Rudolf Schenker, all'epoca mi sembravano cose fantastiche, insuperabili, sublimi.
Avevo quindici anni e mi facevo impressionare, com'era giusto che fosse. di certo non potevo pensare a Jaco Pastorius o a Mingus, c'erano gli Scorpions. Per anni e anni non ho più ascoltato un loro disco, con una malcelata punta di ricusazione, e mi è capitato di parlare dei miei anni da metaller con un tono leggermente derisorio.
Ho riascoltato “Tokyo Tapes” in quest'ultimo mese, per un caso fortuito, e devo dire che suona ancora come un robusto live di hard rock d'epoca. adesso riesco a cogliere al meglio gli accenti hendrixiani della chitarra di roth e comunque l'impatto sonoro aveva un suo senso, come l'impasto di classicismo heavy e tentazioni pop. E dico questo in un periodo in cui mi sono focalizzato su altro, sul blues di Chicago e del Texas, su derivazioni di Stevie Ray Vaughan e jazzismi francofili, quindi è un parere onesto, un risarcimento danni.
Quel disco mi ricorda tutta una serie di ingenuità caratteriali che suscitano un sorriso. nei pezzi più tirati quel doppio Lp mi dava una grinta che ero convinto di poter usare in modo costruttivo, nelle ballate o nei pezzi più epici si annunciava quella vocazione al drammone amoroso che poi trovò il paradiso con i dischi dei Queensrÿche e dei Marillion.
Frequentavo il ginnasio, con risultati davvero pessimi, e ogni mattina mi caricavo con pezzi come “Pictured Life”, illanguidendomi invece, soprattutto se mi piaceva qualcuna, con quel capolavoro pomposo che era “In Trance”.
Ora che mi sento bastardo, e non da poco, ora che so di essere diventato più o meno un arido rottinculo innamorato della religione perversa del non credere, ebbene rimpiango quel disco e quel che innescava.
E non rimpiango solo gli scorpions: anche l'occultismo serpeggiante dei blue oyster cult, il perpetuo funerale elettrico dei black sabbath, la chirurgica potenza degli iron maiden, l'apologia della rozzezza perpetrata con i motorhead e lemmy kilmister, persino qualcosa dell'hair metal più sincero.
Mi fa sempre tristezza pensare a quanto ci si imbolsisca, e a quanto siamo capaci di rinnegare, in nome di non si sa quale colossale evoluzione.
Ma io ho conservato ogni memoria possibile. Per questa memoria posso affermare che tanto mi hanno dato i litfiba del periodo cupo fiorentino, del primo periodo, la mia amata e desideratissima firenze. e ho avuto il piacere, proprio ricordando quelle sensazioni, di ascoltare in cuffia “desaparecidos” sul ponte vecchio sotto la pioggia, qualche inverno fa, ed è stato potente.
Ogni mia esperienza, lavoro, amore, sesso, solitudine, violenza, ambiguità, ha avuto una precisa colonna sonora. la musica mi ha sempre aiutato, spronato, contenuto e abbracciato.
Oggi è tutto molto sfocato, e tanto del tempo trascorso è come avvolto da una nebbia incredula e orba, dalla consapevolezza che parte di quel folle fuoco è persa, che la bocca invasa da febbre e rabbia ha lasciato il posto ad una smorfia amara, ancora gradevole solo perché continuo a lavarmi e ho solo poco più di quarant'anni. Ma non ho mai smesso di organizzare la dispersione di quelle ceneri.
Il guaio è che il fuoco cova, banalmente, sotto la cenere, e le lingue bluastre si fanno vedere di notte, travestite da ricordo o da sogno. non riesco a pensare di aver chiuso baracca con l'inferno. Dove cazzo è finito l'errore che urla? Perché lo specchio riproduce con tanta difficoltà quello sgorbio di disagio e lo ammortizza nel silenzio e nelle sparizioni metodiche?
Dov'è finita la guerra, la guerra alla pace? Dov'è finito il freddo abbraccio delle sciarpe logore nelle sale d'attesa delle stazioni?
Non sono un nostalgico, ma la quiete mi irrita. il flusso regolare della vita mi sembra ancora un compromesso insopportabile. e subire, di qualsiasi cosa si parli, mi è ancor più inaccettabile di sempre. si deve reagire, sempre, parlando poco e non escludendo azioni senza alcuna garanzie.
La mia sciarpa blu a firenze, il freddo, la musica, sono per me tatuaggi che non espongo.
Firenze è uno dei pochi luoghi della mia anima. Ho firenze nello stomaco, nelle vene e nei pensieri.
Le ferite diventano tatuaggi e rughe d'espressione. i capelli che non avrai più sulla bocca restano come fili invisibili, come suture impercettibili, come corde di sottile malinconia, come visione olfattiva di liane fantasma.
La trivella mimetizzata che mi porto dentro gira sempre e gira ancora, sonda e ispeziona faglie e sabbie mobili, dilania sogni rimasti sul terreno, si serve dei miei ricordi per andare più a fondo e rischiare tutte le cupezze della verità.
Ci sono giorni che mi diverto poco a scrivere note e notarelle. non mi sento obbligato a farlo, ma alla fine scrivo. non lo faccio per me e non lo faccio certo per gli altri. lo faccio e basta.
Questa nota è nata sull'onda di un vecchio vinile degli scorpions. Mi prendo la libertà di iniziare a scrivere qualcosa senza pensare al seguito e all'appeal del composto.
Quando scrivo, sono spesso come uno spaventapasseri durante la festa di alcuni stronzi. o un poliziotto privato da film, stanco e ingrassato, sulla banchina a godersi il vento. O, meglio ancora, come un amante che si è scaricato da solo, semplicemente guardandosi nel riflesso di una vetrina o di un portone.
AREA NAPOLI CENTRALE, CLASSE '72Il rock italiano degli anni settanta, il rock e non il pop, è stata ed è ancora una delle mie grandi passioni.
“Arbeit macht frei” degli area è uno dei dischi più importanti della mia vita, così come l'omonimo dei napoli centrale, che all'epoca mi folgorò e resta uno dei capisaldi mai rinnegati. Quei dischi grondavano creatività, coscienza civile e artistica, zenit di una scena brulicante e sanguigna, ed io ero come soggiogato dalla voce di demetrio stratos, dalle geometrie ardite e ritmiche degli area, ero allo stesso tempo innamorato della voce sgraziata e splendida di james senese, il suo sax lancinante e coltraniano, la batteria chirurgica di franco del prete e il basso pulsante, denso e scuro di tony walmsley. |
|
La voce di Senese in “Viecchie, mugliere, muorte e criaturi” è sempre stata uno scossone allo stomaco, all'intelligenza, alla lucidità di pensiero. sono cresciuto con questi due dischi enormi ed irripetibili, mi hanno predisposto ad altri ascolti, hanno spianato la strada ad un desiderio di approfondimento che non mi ha mai abbandonato.
“Napoli Centrale” uscì nel 1975, “Arbeit macht frei” era uscito due anni prima, io avevo solo un anno, non potevo sapere: ma un giorno avrei conosciuto, sarei stato fortunato.
Sono due dischi che si possono accomunare per la forza d'impatto sulla scena italiana, da sempre troppo indulgente verso le sdolcinatezze pop, per sua stessa formazione troppa attenta alla melodia e in fondo poco propensa alla destrutturazione e all'iconoclastia, caratteristiche queste che possiamo trovare in entrambi i dischi di cui parlo.
L'eco dei weather report era presente tanto negli area quanto nei napoli centrale, così come altre influenze, ma sarebbe riduttivo dire che queste due grandi band irregolari abbiano offerto qualcosa di seppur minimamente derivativo. erano rivoluzionarie a tutti gli effetti, di certo molto più del movimento prog cui sono state annesse in parte e con una certa faciloneria.
Trovo ancora oggi gli area più assimilabili al rock in opposition, e i napoli centrale al jazz-rock più nobile che spopolava oltreoceano in quegli anni fantastici.
Vero è che Patrick Djivas passò dagli area alla pfm, vero che alcuni dei musicisti orbitarono sia pure trasversalmente nel movimento progressivo, ma è troppo limitante annetterli in qualsiasi scena delimitata.
Grazie a questi due gruppi giganteschi, ho iniziato a scolarmi tutto il rock italiano che potevo in qualche modo considerare parte integrante di quel magma creativo e ribelle, finalmente di rottura, che si stendeva davanti a me, seppure in ovvio ritardo.
E così sono arrivati i primi dischi di eugenio finardi, gli stormy six, il pop rock amaro e cinico di alberto radius, osage tribe, il volo, libra, cervello, esagono, i primi del grande alan sorrenti, claudio rocchi, andrea tich, quasi tutti i titoli del catalogo cramps, la fusion tecnica dei baricentro e dei nova, insomma mi nutrivo, ma tutto nasceva da quei due dischi meravigliosi.
Ieri ho riascoltato “Arbeit macht frei” e mi sono venuti i brividi, proprio come ai primi ascolti. oggi tocca all'esordio dei napoli centrale, e non mi è difficile sentirmi come un ragazzo che scopre un filone aureo e non sa bene da dove cominciare.
Giorni fa ho riascoltato anche il primo disco dei libra, che trovo estremamente intrigante, un po' prog e molto funky, con il notevole basso di dino kappa e le declamazioni in romanesco di Federico D'Andrea, morto prematuramente a trent'anni, investito da un'auto.
e penso a come sono arrivato a scoprire, tramite l'amore per il gruppo raccomandata ricevuta ritorno, che è stato nanni civitenga a suonare il basso nel pezzo clamoroso di morricone che apre “Un sacco bello”, ricalcato sul seminale “traintime” scritto dal mio amato Jack Bruce.
Trovo sia impossibile fermarsi, con la musica. insisto sul concetto, dev'essere una ricerca continua, non affannosa ma felice, e sempre con lo stesso entusiasmo di un tempo, sempre con la stessa fame. per questo faccio tanta fatica a confrontarmi con chi definisce i generi e ne classifica data di nascita e di morte, chi ti dice che dopo è morto tutto, ma non riesce ad approfondire veramente il prima. Gli anni settanta, anche in Italia, sono stati una fucina di talenti e di piacevolissime sorprese.
Non credo lavorerò più in un negozio di dischi, almeno allo stato attuale delle cose. C'è troppa decadenza, ed è deprimente assistere all'estinzione di un mercato che è stato cultura ed è stato distrutto dalle case discografiche, dagli idioti che ci lavoravano e dalla pigrizia sconsiderata dell'utenza media, laddove per medio si intende superficiale.
Devo dire che tutto quel che conosco e che amo, negli ultimi anni di lavoro, non mi è servito ad un cazzo per fini commerciali, e così non doveva essere, era tutto troppo annacquato per essere diverso.
Sono soddisfatto di aver fatto conoscere qualcosa di buono a chi si fidava di me e ancora oggi sento e frequento, sono soddisfatto del confronto e dello scambio, ma oggi vendere dischi non è più un mestiere e probabilmente non lo sarà mai più. se avessi anche io un fondo molto sostanzioso, tenterei certamente l'avventura, ma il negozio dovrebbe avere la mia impronta, penso di essermelo guadagnato, e di aver lavorato e studiato per un'autonomia che desideravo. Mai più vendere dischi sotto padrone, nei lerci gangli delle multinazionali cieche e ottuse, ma nemmeno vendere dischi con amici più predisposti a quello che definirei “l'obbligatorio masticabile”.
Magari, un giorno. con un'altra tranquillità, forse in un'altra città, come corredo necessario di altro, come suggello -questo sì- di una passione che neanche le spine della vita hanno sopito.
Infine, per quel conoscente che mi ha detto che non contempla “il cantato in italiano o napoletano”, la trovo una limitazione piuttosto demenziale. Neanche i Francesi, tanto sciovinisti, hanno mai pensato di vivere solo con Johnny Hallyday, Edith Piaf e Serge Gainsbourg.
“Napoli Centrale” uscì nel 1975, “Arbeit macht frei” era uscito due anni prima, io avevo solo un anno, non potevo sapere: ma un giorno avrei conosciuto, sarei stato fortunato.
Sono due dischi che si possono accomunare per la forza d'impatto sulla scena italiana, da sempre troppo indulgente verso le sdolcinatezze pop, per sua stessa formazione troppa attenta alla melodia e in fondo poco propensa alla destrutturazione e all'iconoclastia, caratteristiche queste che possiamo trovare in entrambi i dischi di cui parlo.
L'eco dei weather report era presente tanto negli area quanto nei napoli centrale, così come altre influenze, ma sarebbe riduttivo dire che queste due grandi band irregolari abbiano offerto qualcosa di seppur minimamente derivativo. erano rivoluzionarie a tutti gli effetti, di certo molto più del movimento prog cui sono state annesse in parte e con una certa faciloneria.
Trovo ancora oggi gli area più assimilabili al rock in opposition, e i napoli centrale al jazz-rock più nobile che spopolava oltreoceano in quegli anni fantastici.
Vero è che Patrick Djivas passò dagli area alla pfm, vero che alcuni dei musicisti orbitarono sia pure trasversalmente nel movimento progressivo, ma è troppo limitante annetterli in qualsiasi scena delimitata.
Grazie a questi due gruppi giganteschi, ho iniziato a scolarmi tutto il rock italiano che potevo in qualche modo considerare parte integrante di quel magma creativo e ribelle, finalmente di rottura, che si stendeva davanti a me, seppure in ovvio ritardo.
E così sono arrivati i primi dischi di eugenio finardi, gli stormy six, il pop rock amaro e cinico di alberto radius, osage tribe, il volo, libra, cervello, esagono, i primi del grande alan sorrenti, claudio rocchi, andrea tich, quasi tutti i titoli del catalogo cramps, la fusion tecnica dei baricentro e dei nova, insomma mi nutrivo, ma tutto nasceva da quei due dischi meravigliosi.
Ieri ho riascoltato “Arbeit macht frei” e mi sono venuti i brividi, proprio come ai primi ascolti. oggi tocca all'esordio dei napoli centrale, e non mi è difficile sentirmi come un ragazzo che scopre un filone aureo e non sa bene da dove cominciare.
Giorni fa ho riascoltato anche il primo disco dei libra, che trovo estremamente intrigante, un po' prog e molto funky, con il notevole basso di dino kappa e le declamazioni in romanesco di Federico D'Andrea, morto prematuramente a trent'anni, investito da un'auto.
e penso a come sono arrivato a scoprire, tramite l'amore per il gruppo raccomandata ricevuta ritorno, che è stato nanni civitenga a suonare il basso nel pezzo clamoroso di morricone che apre “Un sacco bello”, ricalcato sul seminale “traintime” scritto dal mio amato Jack Bruce.
Trovo sia impossibile fermarsi, con la musica. insisto sul concetto, dev'essere una ricerca continua, non affannosa ma felice, e sempre con lo stesso entusiasmo di un tempo, sempre con la stessa fame. per questo faccio tanta fatica a confrontarmi con chi definisce i generi e ne classifica data di nascita e di morte, chi ti dice che dopo è morto tutto, ma non riesce ad approfondire veramente il prima. Gli anni settanta, anche in Italia, sono stati una fucina di talenti e di piacevolissime sorprese.
Non credo lavorerò più in un negozio di dischi, almeno allo stato attuale delle cose. C'è troppa decadenza, ed è deprimente assistere all'estinzione di un mercato che è stato cultura ed è stato distrutto dalle case discografiche, dagli idioti che ci lavoravano e dalla pigrizia sconsiderata dell'utenza media, laddove per medio si intende superficiale.
Devo dire che tutto quel che conosco e che amo, negli ultimi anni di lavoro, non mi è servito ad un cazzo per fini commerciali, e così non doveva essere, era tutto troppo annacquato per essere diverso.
Sono soddisfatto di aver fatto conoscere qualcosa di buono a chi si fidava di me e ancora oggi sento e frequento, sono soddisfatto del confronto e dello scambio, ma oggi vendere dischi non è più un mestiere e probabilmente non lo sarà mai più. se avessi anche io un fondo molto sostanzioso, tenterei certamente l'avventura, ma il negozio dovrebbe avere la mia impronta, penso di essermelo guadagnato, e di aver lavorato e studiato per un'autonomia che desideravo. Mai più vendere dischi sotto padrone, nei lerci gangli delle multinazionali cieche e ottuse, ma nemmeno vendere dischi con amici più predisposti a quello che definirei “l'obbligatorio masticabile”.
Magari, un giorno. con un'altra tranquillità, forse in un'altra città, come corredo necessario di altro, come suggello -questo sì- di una passione che neanche le spine della vita hanno sopito.
Infine, per quel conoscente che mi ha detto che non contempla “il cantato in italiano o napoletano”, la trovo una limitazione piuttosto demenziale. Neanche i Francesi, tanto sciovinisti, hanno mai pensato di vivere solo con Johnny Hallyday, Edith Piaf e Serge Gainsbourg.
“One of these nights” degli eagles è una delle canzoni della mia vita.
Il testo, l'atmosfera, la melodia, le chitarre.
È una canzone da vecchio bucaniere, non c'è dubbio. È una canzone che mi ha sempre sospinto verso la libertà, anche se non ho mai capito in cosa consista realmente.
Ma, come per parecchie cose intangibili, io nella libertà ci credo. Ci credo ancora. Se non altro, credo nella non prigionia e nella volontà di affrancarmi dalle gabbie che il cielo cala continuamente.
Cerco di credere un po' in quel che cazzo mi pare, alla fine; e come tutti mi arrangio con le mie carabattole evolutive.
Un po' mi piace, questa situazione da bucaniere al confino, smarrito in una old country pop song, cercando di dimenticare l'uso del rasoio e della diplomazia. Una qualche forma di libertà, piccola, tascabile, rozza, rozza come la strada intrapresa, scabra, difforme.
Tempi di poche gemme, tempi di sogni finiti nello scheletro del vecchio binocolo, tempo di blues e poco altro.
Tempo che un bel disco di albert collins esca dalla mia porta e dal mio oblò, e che qualcuno passando batta il piede fuori tempo, fa lo stesso. Tempo che non chiede lacrimose parole per sancire questa fine d'anno, che come tutte le volte ben si presta alla nostalgia e a certe considerazioni un po' barocche e leggermente patetiche.
Il blues è la musica della 'bad luck', ma anche del riscatto e di una forza che non si è persa, continuando a muoversi nella fanghiglia con idee ben chiare.
In fondo sono contento di non appartenere a quei quarantenni che possono dire con boria “ho costruito qualcosa di solido, guardate” e che nei momenti di tristezza pensano a cose eccentriche, come depilarsi l'intimo o vestirsi di marinaio con l'amica della moglie per scoparsela meglio. Mi vestirei anch'io da marinaio, la farei pure una marchetta, ma dovrebbe valerne la pena, dovrei divertirmi, si dovrebbe godere e basta, senza cercare di riempire vuoti in continuazione.
In questo delirio di incostanze affettive e mostri sezionati nei frigoriferi di chiunque, persino il sesso è diventato uno strumento di tortura e di incomprensione. Scrivere non ne parliamo. Tutti geni incompresi. Tutti a piangere perché il diario di peli e di pugnali non viene pubblicato e adorato come quei lucchetti di quello di roma.
“non sono stato capito, è una società malsana, questa”.
Naturale, comunque vai a prenderlo nel culo, gentile lawrence moderno e metropolitano; non hai capito che è meglio vestirsi da marinaretto e andare ad infilare qualcuno, qualcosa, persino se stessi?
Questo è lo spessore acido delle retrovie, caro Dorian Gray con pomatine intostanti, qui c'è la schiuma dei quaranta e oltre, mettiti comodo tra noi falliti e bevi qualcosa, prima o poi una simpatica puttanella ti farà lingua in bocca perché gli dei qualche segnale lo inviano pur sempre.
Goditi una delle tue ultime erezioni condite da ottimismo; ti rimarranno, magari, ma l'ottimismo lo si perde per strada e per niente.
La pubblicità mi informa che escono dispense in edicola di scrittura creativa. Ci mancava solo quest'ossessione senza palle. Me li vedo, tutti gli esaltati a scrivere scrivere e scrivere, “perché esprimersi è il sogno”. Sul serio, trovo commoventi queste dichiarazioni.
Qui tutti pensano di avere talento. Spesso nascosto, ma... È stato solo un caso che non siano stati scoperti.
Ho smesso da tempo di perdere l'appetito per colpa di tutti i libri di merda che escono. Non presumo di poterne fare uscire uno migliore, non è interessante uno che viviseziona ogni cosa, manca il sogno, manca l'emozione. Si passa facilmente per degli eccentrici, dei marginali rabbiosi, per un precoce erotomane con il catetere.
Qualcuno smette di leggerti perché sei sacrilego, qualcun altro perché si sente preso per i fondelli a causa di un'ambigua caricatura, c'è sempre chi si considera importante se pensa di essere preso di mira.
Come quella sindrome epimestruale che spinge alcune donne, sfiorate e toccate in ere mesozoiche, a sentirsi coinvolte in certe reprimende e in alcune gratuite provocazioni. Come quei conoscenti imbalsamati che si sentono irrisi perché rientrano nel partito di quelli che si sono sposati con la prima che non ha protestato per la velocità di esecuzione; e che ha iniziato a cucinare per loro e organizzare qualche cineforum del cazzo e qualche escursione fuori porta per sentirsi un po' figli del creato.
Troppa gente suscettibile in giro, l'ho sempre pensato.
Dovrei lasciare che il lettore mi immagini strutto da non si sa cosa o chi, sotto le luci di un porto o di una stazione deserta. È accaduto, quando doveva accadere. Ma lo zucchero è finito. Dovrei augurare buon anno alle cose e alle persone perse, con voce e scrittura tremanti; dovrei essere un bluff per pochi intimi, su questo blog perennemente a cosce aperte.
Invece, credo sia giusto passare un'immagine scarna e veritiera, di chi scorticato lo è per natura, nascita e crescita; di uno che non si è mai sentito ambasciatore di qualcosa, neanche della rabbiosa inadeguatezza così agevolmente sciorinata. Di uno che è finito in un blues e ci si è abituato al punto da ripetersi come un lamento leggero.
Di uno che ascolta sempre volentieri “One of these nights”, che è un pezzo leggerissimo, di facile presa, da decappottabile della disillusione, l'unico modello di auto capace di tenere tutto a distanza di sicurezza dalle insidie di un'anima prigioniera di specchi mai guardati a lungo.
Il testo, l'atmosfera, la melodia, le chitarre.
È una canzone da vecchio bucaniere, non c'è dubbio. È una canzone che mi ha sempre sospinto verso la libertà, anche se non ho mai capito in cosa consista realmente.
Ma, come per parecchie cose intangibili, io nella libertà ci credo. Ci credo ancora. Se non altro, credo nella non prigionia e nella volontà di affrancarmi dalle gabbie che il cielo cala continuamente.
Cerco di credere un po' in quel che cazzo mi pare, alla fine; e come tutti mi arrangio con le mie carabattole evolutive.
Un po' mi piace, questa situazione da bucaniere al confino, smarrito in una old country pop song, cercando di dimenticare l'uso del rasoio e della diplomazia. Una qualche forma di libertà, piccola, tascabile, rozza, rozza come la strada intrapresa, scabra, difforme.
Tempi di poche gemme, tempi di sogni finiti nello scheletro del vecchio binocolo, tempo di blues e poco altro.
Tempo che un bel disco di albert collins esca dalla mia porta e dal mio oblò, e che qualcuno passando batta il piede fuori tempo, fa lo stesso. Tempo che non chiede lacrimose parole per sancire questa fine d'anno, che come tutte le volte ben si presta alla nostalgia e a certe considerazioni un po' barocche e leggermente patetiche.
Il blues è la musica della 'bad luck', ma anche del riscatto e di una forza che non si è persa, continuando a muoversi nella fanghiglia con idee ben chiare.
In fondo sono contento di non appartenere a quei quarantenni che possono dire con boria “ho costruito qualcosa di solido, guardate” e che nei momenti di tristezza pensano a cose eccentriche, come depilarsi l'intimo o vestirsi di marinaio con l'amica della moglie per scoparsela meglio. Mi vestirei anch'io da marinaio, la farei pure una marchetta, ma dovrebbe valerne la pena, dovrei divertirmi, si dovrebbe godere e basta, senza cercare di riempire vuoti in continuazione.
In questo delirio di incostanze affettive e mostri sezionati nei frigoriferi di chiunque, persino il sesso è diventato uno strumento di tortura e di incomprensione. Scrivere non ne parliamo. Tutti geni incompresi. Tutti a piangere perché il diario di peli e di pugnali non viene pubblicato e adorato come quei lucchetti di quello di roma.
“non sono stato capito, è una società malsana, questa”.
Naturale, comunque vai a prenderlo nel culo, gentile lawrence moderno e metropolitano; non hai capito che è meglio vestirsi da marinaretto e andare ad infilare qualcuno, qualcosa, persino se stessi?
Questo è lo spessore acido delle retrovie, caro Dorian Gray con pomatine intostanti, qui c'è la schiuma dei quaranta e oltre, mettiti comodo tra noi falliti e bevi qualcosa, prima o poi una simpatica puttanella ti farà lingua in bocca perché gli dei qualche segnale lo inviano pur sempre.
Goditi una delle tue ultime erezioni condite da ottimismo; ti rimarranno, magari, ma l'ottimismo lo si perde per strada e per niente.
La pubblicità mi informa che escono dispense in edicola di scrittura creativa. Ci mancava solo quest'ossessione senza palle. Me li vedo, tutti gli esaltati a scrivere scrivere e scrivere, “perché esprimersi è il sogno”. Sul serio, trovo commoventi queste dichiarazioni.
Qui tutti pensano di avere talento. Spesso nascosto, ma... È stato solo un caso che non siano stati scoperti.
Ho smesso da tempo di perdere l'appetito per colpa di tutti i libri di merda che escono. Non presumo di poterne fare uscire uno migliore, non è interessante uno che viviseziona ogni cosa, manca il sogno, manca l'emozione. Si passa facilmente per degli eccentrici, dei marginali rabbiosi, per un precoce erotomane con il catetere.
Qualcuno smette di leggerti perché sei sacrilego, qualcun altro perché si sente preso per i fondelli a causa di un'ambigua caricatura, c'è sempre chi si considera importante se pensa di essere preso di mira.
Come quella sindrome epimestruale che spinge alcune donne, sfiorate e toccate in ere mesozoiche, a sentirsi coinvolte in certe reprimende e in alcune gratuite provocazioni. Come quei conoscenti imbalsamati che si sentono irrisi perché rientrano nel partito di quelli che si sono sposati con la prima che non ha protestato per la velocità di esecuzione; e che ha iniziato a cucinare per loro e organizzare qualche cineforum del cazzo e qualche escursione fuori porta per sentirsi un po' figli del creato.
Troppa gente suscettibile in giro, l'ho sempre pensato.
Dovrei lasciare che il lettore mi immagini strutto da non si sa cosa o chi, sotto le luci di un porto o di una stazione deserta. È accaduto, quando doveva accadere. Ma lo zucchero è finito. Dovrei augurare buon anno alle cose e alle persone perse, con voce e scrittura tremanti; dovrei essere un bluff per pochi intimi, su questo blog perennemente a cosce aperte.
Invece, credo sia giusto passare un'immagine scarna e veritiera, di chi scorticato lo è per natura, nascita e crescita; di uno che non si è mai sentito ambasciatore di qualcosa, neanche della rabbiosa inadeguatezza così agevolmente sciorinata. Di uno che è finito in un blues e ci si è abituato al punto da ripetersi come un lamento leggero.
Di uno che ascolta sempre volentieri “One of these nights”, che è un pezzo leggerissimo, di facile presa, da decappottabile della disillusione, l'unico modello di auto capace di tenere tutto a distanza di sicurezza dalle insidie di un'anima prigioniera di specchi mai guardati a lungo.